Riconosci che è Natale da tante cose, ognuno ha la propria e qui vi dico la mia. Quando impiegati di ogni sesso, razza, religione, età, classe sociale, li vedi camminare lesti sulle strade ancora sporche di neve con scarso equilibrio e a rischio scivolone tenendo per mano un panettone o una boccia di spumante da supermercato. C’è molta tenerezza in tutto ciò, il sottile contrasto tra la magnanimità padronale a pioggia della quale beneficiano tutti egualmente, dal management ai centralinisti, e l’anonima gratitudine che ritorna al mittente sospinta dalla situazione contrattuale e dal trattamento economico sotto forma di rassegnata accettazione della convenzione aziendale. Con le feste il dono si ritira e basta, anche se la collaborazione si estingue il trentuno dodici mentre l’ufficio è chiuso e tutti rientrano dopo il sei gennaio, quando si troveranno una scrivania lasciata libera senza ricordarsi da chi. L’impiegato e il suo panettone si avviano verso casa la sera dopo il brindisi con il capufficio e la segretaria, i colleghi si riconoscono da distante perché la marca è la stessa con quella confezione così sfarzosa e ingombrante che poi sul tram o nella cappelliera in treno proprio non ci sta. Guarda che cosa mi hanno dato al lavoro, dicono poi gli impiegati una volta riuniti con la famiglia. D’altronde meglio lo spumante che la cornucopia in peltro di cui ti ha fatto omaggio lo stampatore insieme a quel calendario da tavolo con le foto dei gatti. O il pacco del CRAL che riceve il tuo vicino di casa che fa il messo comunale, con quel caffè che corrode la Bialetti tanto è imbevibile, il pandoro che devi strizzarlo tanto è sugnoso e i Lindor tarocchi che fanno venire i brufoli ai bambini. Ma c’è chi giura di avere una foto appena nato alla cerimonia di saluti natalizi della Provincia negli anni sessanta, quando con i soldi pubblici si compravano regali per tutti i figli dei dipendenti. Un bambino di qualche mese tenuto in equilibrio da sua mamma sopra una torre di pacchi incartati. Poi è tutto finito, ora ci sono le email con le stelle, i paroloni in comic sans per uno scintillante duemilatredici, gli sms inviati alla rubrica aziendale dalla a alla zeta. In certi ambienti maschili le cravatte con il nome del destinatario scritto con il pennarello indelebile, quello che si usa per mettere i titoli sui cd, sulla confezione in cartone bianco, senza nemmeno uno straccio di carta regalo. Ma vi ricordate gli auguri in Flash con l’animazione che caricavi la foto e facevi i pupazzetti danzanti con le facce altrui? I giochi che tiravi le palle di neve in faccia alle renne, prima che i programmi di posta elettronica non iniziassero a bloccare qualunque cosa? Perché ci siamo ridotti così. E riconosci che è Natale proprio perché gli impiegati fanno quell’ultimo viaggio di ritorno prima di scambiarsi gli auguri con i colleghi che fanno la stessa linea con il pacco regalo sulle ginocchia, giocherellando con il nastro e tu cosa fai a capodanno e cosa prepari per il pranzo di Natale, se è un cenone della vigilia o lo festeggi la sera prima. C’è così qualcuno che sa poi che al rientro, che sarà un giorno di quelli con la nebbia o la pioggia e davanti hai un’infinità di giorni prima delle vacanze successive, tutti ci si guarderà amareggiati per aver esagerato con la condivisione dei sentimenti, con le emanazioni di privato in ambito pubblico che fa tanto privacy violata. Per questo qualcuno, dicevo, ha lasciato un paio di confezioni avanzate dalle avances alimentari dei fornitori in sala riunioni, c’è tempo per un caffè e una fetta di pandoro prima di ripartire. Le feste sono finite, ma anche questa è una convenzione sociale, con lo zucchero velato che fa tanto palla di vetro e la rassegnazione che è come sentircisi dentro.
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