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Il processo, le intimidazioni e le minacce non fecero mai venire meno l'impegno di Hrant Dink e la sua fiducia nel dialogo e nella giustizia: ci vollero tre colpi di pistola, sparati a bruciapelo alla schiena in una delle più affollate vie di Istanbul. Il suo assassinio provocò un enorme emozione in tutta la Turchia e il suo funerale si trasformò in una enorme manifestazione. All'insegna dello slogan “Siamo tutti Dink, siamo tutti armeni”, oltre centomila persone scesero in piazza per chiedere pace e riconciliazione. Sei anni dopo la sua morte, resta intatto il messaggio di un giornalista, di un intellettuale, ma soprattutto di un grande uomo che con la sua morte ha dato coraggio a tante persone di far sentire la propria voce contro un'ideologia nazionalista e reazionaria che vorrebbe impedire ai turchi di pensare con la loro testa.
Al contrario di quanto volevano coloro che hanno armato la mano del giovane fanatico assassino, Hrant Dink è diventato il simbolo della Turchia che vuole maggiore democrazia, libertà di parola e pluralismo. Il processo per la sua uccisione resta un test cruciale non solo per il governo di Recep Tayyp Erdogan e per la nuova classe dirigente emersa nell'ultimo decennio, ma per il futuro stesso della democrazia turca. Stabilire la verità e fare giustizia è importante per la famiglia di Hrant Dink, ovviamente, e per la comunità armena, ma è importante anche per la Turchia intera e per l'intera Europa. Un'Europa sempre più impaurita e diffidente, dove nazionalisti e xenofobi di ogni risma sembrano pericolosamente prendere piede, quasi che gli anticorpi prodotti dal cataclisma dei genocidi del XX secolo abbiano ormai perso la loro capacità di fermare la malattia, come ammoniva Primo Levi. Per questo è importante, oggi come sei anni fa, continuare a dire “Siamo tutti Hrant Dink”.
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