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Qualche dato su cui riflettere, in attesa di altre -interessanti- statistiche sulla fuga dei talenti, che vi preannunciamo per il weekend:
-nel 2012 l’industria italiana ha perso il 6,7% in termini di produzione. E’ stato l’anno peggiore, se consideriamo un periodo che inizia nel 1990. E nel 2013, secondo il Centro Studi Confindustria, le cose non dovrebbero migliorare molto;
-il 2012 ha chiuso negativo in tutti i comparti dell’industria: i volumi produttivi sono ormai in gionocchio;
-secondo un’analisi Intesa-Prometeia, la manifattura italiana perde 100 milioni di euro al giorno. Perde nettamente chi punta sul mercato interno, riesce invece a guadagnare chi porta i propri prodotti sui mercati esteri: il problema, rilevano gli analisti, è che le nostre imprese esportatrici sono appena il 4% del totale, un terzo rispetto alla percentuale tedesca – senza contare che sono troppo piccole;
-secondo un recente articolo de Il Sole 24 Ore, l’Europa industriale viaggia ormai a due velocità: mentre Francia, Germania e Inghilterra tengono o guadagnano quote, Italia e Spagna perdono competitività;
-a proposito di compettività, l’hedge fund Bridgewater, dell’italoamericano Ray Dalio, ci mette all’ultimo posto in classifica, dietro persino la Grecia, prevedendo una contrazione del Pil tricolore pari all’1% annuo lungo tutto il prossimo decennio. Ci sono problemi culturali, oltre che strutturali, sottolinea il rapporto. E’ come se il sistema-Paese, sommando una serie di comportamenti dannosi, avesse ormai rinunciato a crescere;
-per chiudere con i giovani, secondo Datagiovani, in 20 anni il nostro Paese ha perso oltre 2 milioni e 800mila under 25. Solo in Spagna la riduzione è stata più ampia. Il peso dei giovani si è contratto di 5,6 punti in 20 anni. Ora contano solo per il 10% sul totale della popolazione. Per paradosso, 2,1 milioni di loro sono inattivi, o Neet.
Una campagna elettorale seria, in un Paese serio, dovrebbe porsi delle domande precise:
-perché la nostra industria perde colpi? E’ un problema solo congiunturale, o anche strutturale?
-forse abbiamo perso competitività? Forse il “piccolo è bello” è un mito che ci ha fatto perdere posizioni in tutte le classifiche? Forse dovremmo cominciare ad aggregare le imprese?
-e una volta che le abbiamo aggregate, forse non dovremmo cominciare a remare tutti nella direzione degli investimenti in ricerca e sviluppo? Insomma, nell’innovazione? Forse è giunto il momento di cambiare pelle al nostro tessuto industriale, spingendo con decisione le imprese ad alto contenuto innovativo, favorendole rispetto a quelle che stanno ormai uscendo dal mercato?
-poiché i mercati esteri rappresentano sempre più lo sbocco necessario per produrre e vendere, non avremmo forse sempre più bisogno di internazionalizzarci? E a questo proposito, non servirebbe una classe dirigente giovane, aperta alla globalizzazione, con significative esperienze all’estero?
-un Paese che vede sempre più assottigliarsi la quota di giovani e aumentare quella degli anziani, che futuro avrà? E se a questo aggiungiamo che la generazione dei (pochi) giovani rimasti è -nei fatti- una generazione perduta, dove pretendiamo di andare?
-infine e per riassumere, da dove ripartire? Forse rinnovando totalmente la nostra classe dirigente? Offrendo a chi è oggi all’estero posizioni apicali nel settore pubblico e privato, per tornare e reinventare da zero un modello-Paese?
Questi sono i dati-chiave di un Paese di fronte alla più importante campagna elettorale degli ultimi 20 anni. Queste sono le domande da porre.
Tutto il resto sono chiacchiere. Tutto il resto è un fallimento annunciato. E una decadenza certa. Forse lenta. Ma certa.
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