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La sceneggiatura di John Guare, adattamento di una sua commedia teatrale, sembra voler dimostrare che c'è una logica molto più stringente di quanto siamo disposti ad ammettere in ogni effetto butterfly che si rispetti. Siamo tutti legati gli uni agli altri e se, a un certo punto, qualcuno sa tutto di noi, non c'è bisogno di immaginare complotti o cospirazioni, ma solo che si hanno amici, e amici di amici, e amici di amici di amici, che si conoscono tra di loro e interagiscono come se noi neanche esistessimo. Entriamo nelle vite degli altri senza saperlo, molto prima di aver capito dove abbiamo posato il piede.
La teoria per cui conosceremmo qualsiasi essere umano al massimo quale settimo individuo in una rete di relazioni è affascinante. Sembra ridurre il mondo a una questione di volontà e di abbattimento dei pregiudizi. Ma Fred Schepisi ci presenta una situazione molto diversa, dove a entrare in gioco è l'immaginazione. Immaginiamo, per esempio, che un affascinante giovanotto di colore (Will Smith) si presenti alla nostra porta e sconvolga tutto con la sua stessa presenza: ce lo aveva già raccontato Teorema di Pasolini, vero. Ma il discorso qui è più complesso: l'equilibrio vitale della casa - quella dei ricchi Ouisa e Flan (Stockard Channing e Donald Sutherland) - non viene turbato da un qualche perturbante angelico, bensì da una serie di coincidenze e di incontri che portano fino al nostro salotto il ragazzo. Questi si presenta quale figlio di Sidney Poitier, proprio il regista di Indovina chi viene a cena, nonché compagno di college dei padroni di casa, toccando corde alle quali non sappiamo resistere: per esempio la partecipazione al film che il padre sta girando a partire dal musical Cats. E il peggio viene solo ora: quando il giovane invoca il potere dell'immaginazione stessa al riscatto di una vita avvilente.
Il film di Schepisi - recitato benissimo - si offre con un messaggio che vuol essere dirompente, ma manca proprio di ciò che propone sul piano esistenziale: un legante. Gli elementi ci sono, sebbene sembrino capitati lì per sbaglio: si reggono bene, ma non si sposano sempre con chiarezza. Se il discorso di Paul sul Giovane Holden è accattivante fino alla più stucchevole piaggeria, non posso disconoscere a Sei gradi di separazione un merito nel contributo a un ripensamento - nel bene e nel male - della vita di relazione. Per lo meno ciò accade senz'altro con i personaggi che il ragazzo incontra: portatore sano di fantasia, seduce il mondo con le sue pretese.
Ma il dionisiaco che questo giovanotto di colore rappresenta è e rimane più di un aneddoto curioso da raccontare e spremere finché si può: in un mondo fratturato nella comunicazione generazionale, Paul schiude le porte ai contatti "orizzontali" tra estranei (che sono più fitti e rilevanti di quanto si pensi). All'improvviso, questa possibilità di andare oltre si fa strada ed è la fine: si perdono controlli e confini, si sono rotti gli argini e le acque. La nostra storia esonda in quelle vicine e non si può più tornare indietro.
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