“Ripenso continuamente al giorno in cui ti sei perso. La malattia ti aveva già toccato con le sue dita maligne, ma per me tutto è cominciato da allora. Una mattina iniziata allo stesso identico modo di tante altre, che però ha cambiato ogni cosa”.
Può una persona amare in maniera talmente sconfinata, da arrivare ad annullare la sua stessa vita, quale dono estremo? Si direbbe proprio di sì, laddove l’amore sia quello giusto, quello che si ha avuto la fortuna e l’intuito di riconoscere, e al quale abbiamo dedicato tutto. L’altra metà di noi, che ha fatto iniziare la nostra vita nell’esatto istante in cui lo abbiamo conosciuto, e che ci fa affermare ogni giorno: “Mai più senza di te”.
Il secondo romanzo del regista di origini turche, Ferzan Ozpetek, ruota un po’ attorno a questo concetto. “Sei la mia vita”, pubblicato da Mondadori nella collana Strade blu, è uscito da poco nelle librerie, in questo mese di maggio 2015, ricco di sorprese editoriali. Chi ha visto i film di Ozpetek sa che le sue opere riservano sempre storie ricche di personaggi che risultano unici e riescono a far breccia nel cuore della gente.
Drammi umani descritti sempre un po’ in maniera surreale, tanto da riuscire a strappare qualche sorriso, nonostante la gravità degli eventi. La solidarietà che spesso si crea è il collante che tiene insieme le storie, che sempre sanno di avventura e di tempi passati; così come di malattie, drammi esistenziali e talvolta anche di morti improvvise o perpetrate da lente agonie.
Mentre vi parlo di quello che ho visto nei film di Ozpetek – in particolare ho amato “Saturno contro” e “Allacciate le cinture” – mi rendo conto di avervi già svelato molto di questo libro. Anzi, sicuramente l’ho fatto, perché, film o romanzi che siano, Ozpetek è un grande osservatore della realtà che lo circonda, e da lì crea i suoi personaggi. Ero consapevole della grande sensibilità di questo autore e del suo dono, oserei dire naturale, di creare empatia. Ma non pensavo che un romanzo, scritto da un regista, quindi da una personalità sarei portata a dire anche “pratica”, potesse coinvolgermi così tanto.
In quest’opera c’è un motivo che spinge il protagonista a narrare la storia della sua vita, al compagno che, in macchina, gli siede di fianco, mentre una mattina all’alba lasciano Roma. E non vorrei rovinarvi la lettura ma, quello che di primo acchito potrebbe sembrare un espediente banale – perché raccontargli la vostra storia, se c’era anche lui? – , vi assicuro che invece ha una spiegazione logica. E qui sta la grandezza del libro. Mettere da parte se stessi, per amore, e provare a condividere quello che rimane. Quello che l’altro, può ancora provare a condividere. Solo così si giunge ad affermare con decisione e senza ripensamenti: “Sei la mia vita. Te l’ho dimostrato in ogni modo. Altro non posso fare”.
Il protagonista è un regista famoso, giunto dalla Turchia alla fine degli anni Settanta. Lo so, proprio come Ferzan Ozpetek, che dal 1976 vive a Roma. Ma non voglio soffermarmi sul fatto che questa storia sia la sua autobiografia, preferisco parlarvi di un narratore di fantasia, che tanti punti ha in comune con l’autore, al fine di riuscire a dissertare in maniera più “libera” e, forse, anche meno “reverenziale”.
Durante il tragitto che, da Roma, condurrà i due uomini alla casa in montagna in cui il compagno del protagonista è cresciuto, saranno molti i personaggi a “sfilare” davanti ai nostri occhi, con le loro rocambolesche avventure, e quelle descrizioni che scaturiscono da anni di amicizia e di stima reciproca, proprio come nei film di Ozpetek.
Sullo sfondo, il palazzo di via Ostiense, dove il regista vive, è teatro di anni di incontri e dell’avvicendarsi di amici. Soprattutto, ad incantare sono gli anni Ottanta, con quella loro atmosfera “magica” che solo chi li ha vissuti può ricordare; dove tutto sembrava estremamente facile, ma in realtà stavano nascendo problemi che avrebbero avuto la loro risonanza. E Ozpetek ci parla del sesso libero e di passioni travolgenti, messe duramente alla prova dallo spettro dell’aids, di cui ancora nessuno sapeva nulla. Molti gli amici morti per mano del terribile morbo, in tempi diversi, dove le cure non avevano ancora efficacia. La descrizione della comunità gay e le lunghe estati nel segno della trasgressione, ci trasportano in un mondo del quale forse non si sa poi molto. L’autore, ovvero il regista, che più di altri sa parlare di sentimenti, ci guida nel viaggio della sua mente, che diventa anche il nostro. Con continue digressioni temporali, che rimandano a tempi andati, ci fa ridere e ci commuove al tempo stesso.
Al centro, sempre e solo l’amore, quale filo conduttore di tutte le sue opere; motore che tutto fa muovere e attorno al quale tutto gira.
La prosa, elegante e appassionata, trasuda di sentimento. Espressioni mai scontate, che giungono dritte al bersaglio, quali frecce scagliate che si conficcano nella carne, forse per non lasciarci più. Perché è bellissimo amare in maniera così totalitaria qualcuno, ma è da pochi riuscire a farlo.
E vorrei concludere con una frase che mi ha colpito. Qui ho ritrovato il senso della vita di chi non ha avuto la fortuna di godere dell’appoggio di qualcuno. Famiglia o amici che fossero, in questo concetto ho ritrovato il senso di sentirsi soli, seppur in compagnia.
“Se cresci senza nessuno che ti dica mai che sei bello o che sei bravo, senza una parola di conforto che ti rassicuri dandoti il tuo posto al sole nel mondo, niente sarà mai abbastanza per ripagarti di quel silenzio. Dentro resterai sempre un bambino affamato di gentilezza, che si sente brutto, incapace e manchevole, qualsiasi cosa accada. E non importa se, nel frattempo, sei diventato la più bella delle creature“.
Strano, come la realtà sia continuamente sotto i nostri occhi, ma soltanto alcuni abbiano la facoltà di trovare le parole per descriverla. Penso che questa sia una qualità degli scrittori. Di quelli bravi, intendo.
Dopo questa lettura, il messaggio che emerge è che non esistono uomini o donne: rimangono tracce solo di chi sa amare.
Written by Cristina Biolcati