7 febbraio 2014 di Dino Licci
Pirandello incontra Eduardo, Peppino e Titina De Filippo (1933) (da Wikipedia)
Qualche giorno fa Rai 5 ha mandato in onda i “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello. Il dramma, rappresentato per la prima volta nel 1921, suscitò varie critiche, ma servì a dare una fama internazionale all’autore che, con questa prima opera di una trilogia comprendente “Questa sera si recita a soggetto” e “Ciascuno a suo modo”, trattava un tema inedito e cioè la pretesa del personaggio di avere una vita autonoma al di fuori della mera rappresentazione teatrale. Io non so se Pirandello abbia consapevolmente scomodato due grandi filosofi dell’antichità per dare peso al suo dramma, ma certamente il trascinante eloquio dei suoi personaggi comprendono e compendiano due grandi temi che costituiscono i cardini di due dottrine paradossalmente contraddittorie e simbiotiche. Mi riferisco alla filosofia di Parmenide da una parte, di Eraclito dall’altra.
Sarà bene a questo punto che io ricordi ai cortesi lettori la trama del celeberrimo dramma cercando al contempo analizzare il vero messaggio che emerge da un’attenta analisi dei testi:
“ Una compagnia di attori sta provando la commedia “Il giuoco delle parti” sotto la regia di un capocomico giustamente esigente, quando sul palcoscenico irrompono sei personaggi rigettati dal loro stesso autore : un Padre, una Madre, un loro Figlio e tre figliastri, una Donna, un Giovinetto e una Bambina.
Il Padre dopo aver avuto da lei un Figlio, si separa dalla Madre sollecitandola a ricostruirsi una famiglia con il segretario che lavorava in casa loro, sentendosi emarginato dalla tacita intesa che emergeva dagli atteggiamenti dei due. La Madre avrà da quest’ultimo altri tre figli: la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina.
Già da queste prime battute emerge una tematica cara a Pirandello e resa esplicita in “Uno, nessuno, centomila”: l’incomunicabilità. Il Padre cerca di spiegare alla madre che il suo gesto era anche altruistico e dettato dalla consapevolezza che sua moglie sarebbe stata molto più felice nelle braccia del suo segretario, mentre egli stesso si sarebbe liberato dall’incresciosa situazione di vedersi emarginato in casa sua. La Madre interpreta questo atteggiamento come un ripudio e riversa il suo odio verso il Padre che, da questo gesto, si aspettava riconoscenza. Si palesa così la condizione dell’uomo pirandelliano che è uno perché ogni singolo individuo crede di essere unico nelle sue prerogative essenziali ma viene frainteso e, per farsi accettare, è costretto a cambiare la sua personalità indossando centomila maschere, diverse per quante sono le persone che l’osservano, nessuno perché, costretto ad indossare panni non suoi, finisce per non sapere più quale sia la sua vera identità, la quale comunque varia col passare degli anni perché “tutto scorre” come avrebbe detto Eraclito ed egli non riconosce più se stesso giovinetto, adulto, anziano,vecchio. Egli muore già prima dell’ultimo trapasso nelle varie fasi della sua vita. Un uomo muore, un personaggio no. E’ questo che il Padre cerca di far capire al capocomico che ascolta, sempre più interessato, il racconto e le argomentazioni del Padre che sciorina e non so quanto consapevolmente negli intendimenti pirandelliani, tutta la filosofia parmenidea.
Un uomo è vivo se lo si pensa e nel momento in cui lo si pensa, dice Parmenide, anche se materialmente non c’è più e sembra quasi che il personaggio che chiede al capocomico di dargli vita eterna, l’immortalità, conosca appieno questa dottrina che avalla con esempi concreti: è forse morto Sancio Pancia emerso dalla fantasia di Cervantes? è forse morto don Abbondio di manzoniana memoria? I personaggi sopravvivano ai loro autori e il Padre sa che, se troverà un autore che lo riabiliti nel suo ruolo, diventerà appunto immortale. Queste le argomentazioni che adduce a difesa della sua richiesta che infine viene accolta dal suo interlocutore che lo sprona a finire di raccontare la sua storia che continua così:
Il segretario muore, la famiglia cade in miseria, tanto che la Figliastra è costretta a prostituirsi in un atelier dove la Madre lavora come sarta. Qui si reca abitualmente il Padre per sedare i suoi bassi istinti e il suo bisogno d’affetto. Padre e Figliastra non si riconoscono e l’incontro carnale viene evitato appena in tempo dall’intervento della Madre. Tormentato dalla vergogna e dai rimorsi, il Padre accoglie in casa la Madre e i tre figliastri suscitando il risentimento del Figlio così che la convivenza diventa insostenibile e che sfocerà in tragedia laddove la Bambina annegherà in una vasca e il Giovinetto si suiciderà con una pistola reperita chissà dove.
Finito il racconto, gli attori della compagnia teatrale provano a rappresentare il dramma dei personaggi che non si riconoscono in quella simulazione che non riesce ad evidenziare il vero essere di ciascuno di loro: il dolore della Madre, il rimorso del Padre, la vendetta della Figliastra, lo sdegno del Figlio. Sulla scena tutto appare falsato e distorto. Mancano il pathos, il lirismo, il sentimento. E’ ancor il tema dell’incomunicabilità che emerge in tutta la sua cruda realtà come pure l’impossibilità di ricostruirsi un vita ripartendo da zero come apparirà più evidente nel “Fu Mattia Pascal”.
Con quest’opera Pirandello ha inserito una commedia nella commedia o forse dovremmo dire un dramma nel dramma dando la stura alle mille domande che un lettore attento si pone di fronte alle tante provocazioni che conducono inesorabilmente a riflessioni che lacerano un’ umanità sommersa in un mondo finto, ipocrita, dal quale mai potrà emergere un’ incontrovertibile Verità.
E forse non a caso la morte della bambina, posta alla fine del dramma, disintegrerà la finzione teatrale riportandoci alla nostra ambigua realtà abituale tra le risate stridule e beffarde della figliastra, che getterà ancora più un’ombra d’inquietudine e turbamento nello spettatore già ammaliato e basito dalle tante verità nascoste in queste pagine diventate, esse si, veramente immortali. Dino Licci