Gabriele Lavia si avvicina al sommo testo pirandelliano con fare rispettoso e filologico, evitando colpi di testa, timoroso ma non intimorito di fronte a cotanta materia teatrale. Un approccio reverente ma non irriverente al più classico dei classici applicato sin dall’inizio (poi con fare circolare tornerà anche nel finale) con la sua voce fuori campo che scandisce le didascalie scritte dal drammaturgo siciliano (un inserimento che ricorda il mangianastri di un rivoluzionato ed eccentrico Malato immaginario di qualche anno fa). Lavia quindi serve Pirandello, non lo interpreta, e tantomeno lo altera. Ne veste i panni di autore per poi indossare quelli del padre, capitano di una famiglia in burrasca alla ricerca di pace e di qualcuno che possa dar voce e gambe alla loro storia e al loro martirio. Ma Sei personaggi in cerca d’autore è il dramma dell’impossibilità e dell’incomunicabilità. Ciascuno dei sei characters ha la sua storia, la urla disperato come una monade in gabbia che vorrebbe non curarsi dei familiari ma allo stesso tempo non può ignorarli. I sei personaggi parlano ma non si sentono, e l’inconciliabilità da chiara si fa palese nell’incontro con il capocomico e gli attori, inesatti e inappropriati nel dare corpo a dei personaggi che corpo già hanno. Questo è il loro tormento, questo è il loro eterno e cieco ritorno, chiuso da sempre e per sempre allo sviluppo temporale cui è soggetta la vita di un uomo.
Lavia lavora profondamente sulla portata filosofica di un testo che non si fa digerire con facilità, e, pur con qualche inevitabile affaticamento, riesce a rendere anche la portata psicologica e psicotica dei sei personaggi. Lavia cerca Pirandello, e lo trova. I natali teatrali di quei sei personaggi non mancano di farsi sentire in un tono recitativo più volte troppo appassionato e passionale, di maniera, veicolato soprattutto negli accenti sfrontati ed eccessivi della figlia, Lucia Lavia, vera mattatrice su e giù dal palco, ma non da rubare la scena al papà. Quest’ultimo impugna con sicurezza la parte più importante, sapendo passare con maestria dal tono severo a quello piagnucoloso. Al suo fianco il bravo e impostato Andrea Macaluso e l’intensa lamentatrice funebre (iconograficamente siciliana) Rosy Bonfiglio. Troppa enfasi dunque? A prima vista sì, ma a ben vedere ci ricorda che i sei personaggi sono teatro, profondamente teatro, e i toni non possono essere che questi. Lavia ne è cosciente e non è lui a marcare i toni, ma il teatro stesso che denuncia il suo innato ed intrinseco respiro (ir)reale. Inoltre, come anche dichiarano le due scalette laterali divergenti, siamo di fronte ad una tragedia, greca e moderna allo stesso tempo.
A smussare l’intensità recitativa dei quattro personaggi principali il convincente gruppo di giovani attori guidati dal preciso e duttile Carlo Sciaccaluga nei panni del direttore di scena. Così come alleggeriscono il dramma le musiche di Giordano Corapi. Imponente e sobria la scenografia di Alessandro Camera capace di rendere il vuoto voluto da Pirandello e (non) riempirlo con fondali che sembrano pesanti vele, cantinelle sospese per aria, qualche paravento e un paio di attaccapanni. D’effetto i costumi color crema disegnati da Andrea Viotti in pieno stile borghese anni Venti.
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