Ripropongo la lettura dell’ultima raccolta di Ivano Ferrari, La morte moglie (Einaudi) uscita per il primo amore.
L’ultima raccolta di Ivano Ferrari, La morte moglie, pubblicata da Einaudi nell’ultimo scorcio dello scorso anno, è il quarto movimento nella sua scrittura in versi. Un movimento che vive di una doppia natura. La prima è del tutto casuale: il ritrovamento di una quarantina di testi riconducibili al periodo della stesura di Macello, il poemetto scritto e vissuto quando Ferrari lavorava nel mattatoio di Mantova. Testi che risalgono a oltre trent’anni fa, qui raccolti sotto il nome di Le bestie imperfette. La seconda parte, che dà nome all’intero libro, è costituita da qualcosa che sta a metà strada tra una totentanz e un lieder: sono poesie scritte per la scomparsa di un affetto personale, e irripetibile. Le bestie imperfette, quindi, se da un lato sembra non aggiungere altro a una voce del tutto distinta e forte nella produzione in versi degli ultimi decenni, a una lettura più attenta danno al lettore la possibilità di essere usate come luce, sostanza, per la seconda parte della raccolta. E scrivere di queste poesie è scrivere di una poesia ascoltata e nutrita da forse tutta una vita.
Autore dall’occhio creaturale – forse mistico per eccesso di dettaglio e di visione – Ferrari racconta nelle Bestie imperfette piccole storie, apologhi, sulle condizioni degli animali appena prima, o poco dopo, la loro macellazione. La vicinanza alla morte ha prodotto nell’occhio di Ferrari una scrittura diretta, accesa, che non dà indulgenza e non chiede consolazione: È una vitella elegante / un filo di paglia le esce dalla bocca / nessun / presentimento / di stare tra la morte e uomini minori. Il macello è un teatro che ripete con maggiore fedeltà e più acuta insensatezza la giostra di ogni nascita che trova il proprio completamento solo nella morte: Al centro della sala / il piccolo puledro soffia /al suo profilo la sua pena / essere sporco di madre. Quando non è aguzzino, l’uomo è spettatore silenzioso e cattivo di una sofferenza irrimediabile, costitutiva: La bestia morente / agonizza da sola /perché nessuna cosa / avviene tra le braccia. Non ci sono parole per comprendere o assolvere. Le domande che questi corpi – senza vita, sezionati – sollevano si esauriscono nel proprio peso: Nessuno fa più domande / decine di carcasse sono pronte / non conta l’espediente dei turni / bisogna caricare le risposte. Il macello è sì un teatro, una rappresentazione; ed è una rappresentazione del saṃsāra, un ciclo che nasce con la vita e si esaurisce con la morte, ma monco della rinascita.In La morte moglie Ferrari produce uno scarto inaspettato: cerca di dare forma e luce all’assenza della moglie, di cui si lambisce la scomparsa piuttosto che denunciarla (per quanto possa sembrare paradossale, in non pochi versi il pudore di Ferrari appare come uno dei tratti più distintivi della sua voce nitida e sicura). Colpisce, fin dalla prima poesia, la chiarezza del verso di Ferrari. È come se si stessero leggendo degli epigrammi, è come se ogni singola poesia arrivasse al lettore da uno spazio profondo, interiore, senza filtri. Non ci sono simboli, ma oggetti nudi. La parola è più chiara anche nella confusione che spesso s’incontra (Hai visto che i futuri azzardano lineamenti? / Finiranno per combustione ermetica / sulla fronte ampia del nostro bracconaggio). Una confusione, una combustione, personale prima che espressiva. Ferrari non canta un’assenza, descrive il rovescio di una presenza.
Il teatro in cui ha vissuto negli anni della macellazione ora è vuoto e non è più circoscritto alle ore del lavoro, ma invade tutti gli spazi, a partire dallo spazio della propria intimità violentata dalla morte. Rimangono i gesti, allora, la meccanicità del nutrirsi (niente si può se non un pasto / questo è il bottino della lotta umana), le notti siderali accese solo dal lampo di uno sparo, come denuncia senza remissione il primo testo della sezione. I passaggi del ricordo, della nostalgia, sono angusti e quasi inafferrabili. Uno dei ricordi più puliti e tersi è sulla protezione, e toglie il fiato: Il vento / scompiglia i peli della testa / guaisce e ringhia si scrolla e ci bagna. / Chiudiamo la finestra… Questi quattro versi non hanno nulla di simbolico, non rimandano a nulla se non alla realtà che cercano di descrivere. In questo senso la poesia di Ferrari è lirica, arcaica. Perché non allude, ma indica. E il suo è uno sguardo abbandonato, rimasto solo, che non vuole riposarsi nel sentimentalismo, ma acuisce la percezione e rivela.
Una rivelazione umana, laica. Anche la parola, poi: non è uno strumento, quanto una crosta: Ogni parola / è un reperto archeologico / via il primo strato, il secondo, il terzo. Parola utile solo per negarsi: c’è più intensità nel desiderio e nella fine / che nel portamento del testo. Uno strumento insufficiente, eroso: muore, sta morendo la materia / enorme ombra d’alfabeto. In Macello il dolore era animale, creaturale, in Rosso epistassi il fondale era la storia, la “macelleria della Storia moderna”, come ha scritto Moresco. Nella Morte moglie tutto implode in un punto, opaco. E dove c’è morte, nel rovescio della morte, quasi stupidamente, tutto torna nel subbuglio: c’è un sottosuolo di voragini e firmamenti / nella cantafera della ghiaia sulla tomba.