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Selfie e la disperata ricerca del giudizio di Leonardo Renzi

Creato il 05 giugno 2015 da Wsf

Selfie

Partiamo da una banalità, che bisogna tener costantemente presente: il selfie non è solo un autoscatto, ma un autoscatto pensato per essere postato sui social network. Questa ovvietà lo apparenta strettamente alla tradizione ritrattistica e poi fotografica ottocentesca, di cui è la diretta evoluzione. Il selfie è quindi un’immagine di sé pubblica, una maschera sociale autoprodotta, e come tale la vorrei analizzare.
Il ritratto fotografico nasce contemporaneamente alla fotografia, e contende alla pittura ad olio il privilegio di ritrarre le classi agiate (siano esse aristocratiche o borghesi) per produrne un’immagine pubblica, che incarni l’opulenza e l’eccellenza morale del soggetto o dei soggetti ritratti, fornendo così un’immagine idealizzata, un biglietto da visita adatto ad introdurre il pubblico nella sfera della maschera ritratta. Come per il ritratto pittorico, quello fotografico richiedeva ore di posa al soggetto, un operatore esperto e formato da studi classici, e rispondeva a schemi estremamente rigidi, mutuati dalla tradizione ritrattistica nobiliare, ma soprattutto era un prodotto unico, non essendo ancora stato inventato il negativo, che permetterà la potenzialmente infinita riproducibilità dello scatto. Con l’invenzione del negativo, e poi della macchinetta Kodak, verrà dapprima eliminata l’unicità del ritratto, e poi verrà eliminato l’operatore, il terzo che con il suo sapere accademico garantiva il rispetto di uno standard qualitativo dello scatto. L’innovazione produce un ovvio tracollo dei prezzi e delle qualità dei ritratti fotografici, rendendoli accessibili a tutte le tasche e le classi sociali, ma non per questo si modificherà la rigidità delle pose assunte dal soggetto fotografato, anche se ci sarà un progressivo spostamento dall’estetica della ritrattistica a nobiliare a quella sempre più diffusa dell’intimismo borghese.


Fin qui un riassunto storico, a cui bisogna aggiungere un’importante nota di psicologia della cultura, che tornerà molto utile per il proseguo dell’analisi: la fotografia (e il ritratto fotografico) nasce e trae la propria ragion d’essere da un clima culturale segnato dal positivismo, che riteneva la propria epoca, segnata dalle continue scoperte scientifiche, come l’acme della storia evolutiva umana, il suo punto d’arrivo. Il metodo scientifico, con il suo procedere analizzando e correlando razionalmente fatti, si era dimostrato l’unico modo sicuro (quindi vero) di conoscere e dominare il reale, quindi il percorso d ricerca spirituale e filosofica umana era finito, e con esso la Storia. Ciò che rimaneva da fare allo scienziato, al filosofo, allo storico non era che scandagliare passato e presente, scoprire ciò che vi era di dimenticato ed oscuro, per chiarificarlo, aggiungendolo così al quadro generale delle conoscenze positive dell’umanità. Il compito dell’artista era quello di rappresentare il dato sociale, seguendo i principi descrittivi elaborati dalle scienze naturali: il fotografo intenderà questo compito come una riproduzione sempre più dettagliata e didascalica del reale, credendo la fotografia fosse l’unica arte capace di riprodurre e schedare l’oggetto senza interferenze o idealizzazioni da parte del fotografo. La missione affidata dal positivismo alla fotografia era in potenza totalitaria e totalizzante: ogni cosa doveva essere fotografata, riprodotta e schedata, fosse essa un fossile, un attrezzo lavorativo, una persona o un ricordo… crollato il positivismo e le sue premesse teoriche, la fotografia (e ancor più il ritratto fotografico) non abbandoneranno quest’ansia di totalità, anzi, la accresceranno tanto più il fatto si farà sempre meno solido, la realtà sfilacciata e liquida, il soggetto (auto)ritratto sempre più problematico.

Ritorniamo al selfie: erede storico del ritratto fotografico, mutua dall’illustre antenato la funzione di rappresentare un io sociale (con il suo corredo di pose strettamente codificate), e dal pensiero positivistico l’ansia di totalità, di rappresentare in potenza un’esistenza in tutti i suoi momenti, privati e pubblici, lavorativi e domestici. Questa eredità viene però declinata in maniera nuova, assumendo nuovi attributi e creando nuovi problemi: il selfie è pensato per la galassia dei social network, cioè per dare un volto e un’identità “fisica” ad un profilo, per rendere quindi riconoscibile (e nelle intenzioni di chi lo scatta, unico) un nodo di rete, poiché il mondo social non conosce individui, ma nodi e filtri di flussi di dati. Le problematiche inerenti al selfie sono nuove rispetto al ritratto fotografico otto-novecentesco, e devono essere trattate con nuovi schemi teorici: il selfie può essere pubblico (quindi pensato perché chiunque lo guardi e lo valuti) oppure visibile solo a contatti ed amici, quindi visualizzabile e giudicabile solo da profili scelti, con cui l’autore dell’autoscatto sente di condividere parametri estetico/sociali simili. Questo marca una differenza abissale con il ritratto e l’autoscatto classici, poiché i progenitori del selfie erano pensati per essere esposti, guardati e giudicati in occasioni specifiche e socialmente codificate (la mosta nella galleria d’arte per gli artisti, il contesto familiare/amicale per gli autoscatti inseriti nell’album di famiglia, come parte di un curriculum per chi lavora nel mondo dell’immagine, ecc), mentre il selfie è liquido, facilmente decontestualizzabile, scaricabile e ricaricabile in contesti del tutto estranei alla sua intenzione, valutabile secondo criteri lontani o addirittura totalmente opposti a chi si è scattato l’immagine. A mio avviso il problema centrale del selfie, che è in ultima analisi la sua ragione profonda, è tutto qui: il bisogno di dare un’immagine di sé pubblica e quanto più globale possibile, con il fine (sottointeso e quasi mai dichiarato) di essere riconosciuti, e quindi giudicati. Può sembrare paradossale come tutta la mia analisi sia sfocciata in quel “essere giudicati”, contro cui il pensiero moderno e ancora di più postmoderno hanno ferocemente combattuto, ritenendo l’unico giudice legittimo di sé sia l’individuo e la sua coscienza.

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Il paradosso però è solo apparente: l’individuo ha bisogno che la sua esistenza sia riconosciuta dotata di senso non solo da se stesso (anche il folle e l’autistico ritengono profondamente sensato il proprio vissuto, che però viene ritenuto insensato dal resto del mondo) ma anche dall’altro, meglio ancora se estraneo e quindi non mosso da interesse nel proprio giudicare; se ciò non avviene, se questo bisogno non è soddisfatto, l’individuo percepisce il proprio vissuto come frammentario, accidentale, privo di senso e quindi di peso. Tradizionalemente il giudice supremo, colui che dava unità e senso al vissuto individuale era Dio, e accanto ad Esso la famiglia e la comunità, fosse quella in cui l’individuo era inserito per motivi lavorativi, d’interesse, di impegno politico/religioso, ecc il postmoderno ha distrutto dapprima concettualmente Dio, poi il valore e il senso del vissuto comunitario, demandanto all’io il compito d’essere Dio e comunità di se stesso, giudicandosi e dandosi senso da solo. Il fallimento di questo progetto, e la sparizione dei soggetti tradizionali il cui giudizio era ritenuto valido, ha negato la possibilità di soddisfare il bisogno di essere giudicati, e a questo bisogno tenta di rispondere la galassia dei social, secondo logiche e metodi propri. Il selfie è il mezzo principe (in second’ordine abbiamo i post con i propri pensieri, i video/foto/meme altrui condivisi, ecc) con cui l’io si crea una maschera da offrire al pubblico, un’identità individuale, riconoscibile e giudicabile. Quel che rende problematico il processo, è insito nella natura stessa del mezzo social: rapido, caotico, oberato da flussi di informazioni ed immagini, il social ingloba il selfie alle stregua di ogni altra cosa, esponendolo ad uno sguardo/giudizio rapido e sommario, che spesso si esprime con il solo like, lasciando all’autore dell’autoscatto il dubbio che l’apprezzamento (essendo rarissimo se non inesistente il disprezzo, esprimibile solo per mezzo del commento) sia frutto del caso, di un metodo di scambio di like, di mera cortesia. E’ questa incertezza sul valore da attribuire al giudizio per quantità di like, a creare il fenomeno del selfie compulsivo e a farne una patologia: l’io produce in sovrabbondanza maschere per lo sguardo altrui, poiché sente perennemente insoddisfatto il suo bisogno di apprezzamento, ritenendo quello ricevuto privo di valore, e tuttavia continua a cercare nel medesimo posto e col medesimo mezzo quel giudizio che percepisce svuotato di peso. Ad aggravare il fenomeno, il selfie stesso tende all’omologazione e all’indistinzione: essendo maschera sociale, si sono codificate qualche decina di pose in cui autoritrarsi, che utilizzate da milioni di persone per diverse volte al giorno, ottengono l’effetto opposto da quello desiderato, ossia di riprodurre un’infinita di immagini di corpi in pose standard, privandoli delle differenze individuali, quindi di riconoscibilità.
In sintesi ritengo il selfie l’apoteosi della pretesa di totalità espressa dalla fotografia fin dalla sua origine, l’evoluzione massificata del ritratto fotografico, che però oggi è stato caricato di un compito sconosciuto al suo antenato: quello di fondere l’io con la maschera sociale, perché l’occhio esterno possa giudicare un individuo (e la sua vita) a partire da pose e situazioni scelte dall’autore dell’autoscatto. Che questa pretesa si scontri con l’impossibilità di essere soddisfatta, eppure venga continuamente -talvolta ossessivamente- ritentata, indica che il bisogno di essere giudicati rimane lì, come un convitato di pietra che tutti vedono, ma di cui è vietato pronunciare il nome.

Dorothy Bhawl

Dorothy Bhawl

di Leonardo Renzi


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