Selma , il momento di svolta nella lotta per i diritti civili dei neri americani. Selma, in Alabama, il luogo da cui nel 1965 parte la marcia di protesta guidata da Martin Luther King contro gli abusi razziali subiti dai cittadini neri negli Stati Uniti. Selma, un film trasmesso qualche mese fa nelle sale italiane, diretto da Ava DuVernay, prima afro-americana ad aver vinto il premio come miglior regista al Sundance Film Festival. Prodotto tra gli altri da Ophra Winfrey e Brad Pitt, il film è interpretato da un cast eccezionale (David Oyelowo,Tim Roth, Common, Cuba Gooding Jr). Un documentario più che un film, affascinante, dai ritmi non dirompenti ma interessante per i dettagli storici, per la fine rappresentazione della relazione tra Martin Luther King e il presidente Lyndon Johnson, per i cenni sul ruolo dell’FBI e per il racconto dell’incredibile spirito di donne e uomini comuni, pronti a tutto per inseguire il loro ideale. Attento nel tracciare il ritratto delle donne protagoniste di un momento storico delicatissimo: Coretta Scott King, Amelia Boynton, Annie Lee Cooper, Diane Nash, o Richie Jackson, la casalinga che ospitava questi grandi leader a casa sua durante le interminabili giornate che precedettero la marcia.
Da appassionata fashionista, è stato impossibile per me non notare la bellezza dei costumi, la ricercatezza dei dettagli, la fedeltà con cui tutti gli abiti sono stati realizzati in perfetto stile Sixties. Merito della costumista, Ruth E. Carter , nominata due volte all’Oscar per i costumi di Malcolm X, diretto da Spike Lee nel 1992 e Amistad, diretto da Steven Spielberg nel 1997.
Ho letto molte interviste rilasciate da Ruth, ero curiosa di capire come si arrivasse a realizzare con tanta precisione i costumi per un film del genere.
Innanzi tutto, il lavoro principale è quella della ricerca di fonti alle quali attingere. In questo caso la collezione del magazine Ebony, che Ruth possiede e che contiene due numeri dell’epoca dedicati alla marcia e a suoi protagonisti.
Altre fonti: la serie Eyes on the Prize e tutti documentari sul movimento.
Due punti di partenza fondamentali, peccato solo che i documentari fossero in bianco e nero! Una delle sfide di Ruth è stato decidere come sarebbero stati quegli abiti colorati, quali tinte avrebbero meglio rappresentato quel preciso momento storico.
Lo studio fondamentale è quello che però scava nelle ragioni che portano alla scelta consapevole delle mise. Guardando i documentari e sfogliando le riviste dell’epoca, si nota come i leaders fossero astutamente coscienti degli effetti delle loro scelte sartoriali, vedi gli austeri completi di Martin Luther King, gli abiti eleganti e sempre molto femminili delle donne, le tute da lavoro di molti manifestanti.
“Oggi indossiamo quasi tutti t-shirt e cappelli da baseball, specie durante le manifestazioni. Durante la marcia a Selma, si notano tante camicie bianche e abiti da uomo eleganti. Un uomo in abito elegante negli anni ’60 era del tutto normale, non ci si stupiva nel vederlo girare per casa indossando questo tipo di abbigliamento. Non necessariamente significava che tornasse dal lavoro“.
Un altro dettaglio che Ruth scopre studiando i documentari è la moltitudine di cappotti. Perché così tanti cappotti? Perché mai la gente partiva per una marcia imbacuccata in un cappotto pesante, magari scomodo? Ecco la risposta di Ruth: ” Il cappotto era un’armatura. Era come se sapessero che stavano andando incontro alla brutalità, il cappotto li avrebbe protetti..”, aggiungo io, protetti da manganellate, spari, calci…Inoltre sfilare con le mani dentro le tasche di un cappotto era segno di manifestazione pacifica.
“Le tute con la camicia bianca e la cravatta nera erano l’uniforme dello Student Nonviolent Coordinating Committee, il famoso SNCC. Indossavano la tuta in segno di solidarietà con gli agricoltori del Sud. Nel film si vede James Bevel [interpretato da Common] indossare la tuta in molte scene“, spiega Ruth e continua “Oggi abbiamo quasi dimenticato come ci si veste in modo formale. Ci vestiamo in modo informale per ogni evento. Ma, tornando ai ‘60s, la gente vestiva in modo formale in segno di rispetto. Era la consuetudine. Quando ero piccola, negli anni ’60, e andavo a trovare i miei nonni nel Sud, ci si vestiva bene appena svegli e prima ancora di sedersi a far colazione. Se questo film fosse stato girato negli anni ’60, nessuno avrebbe parlato di come la gente era vestita”.
Per me questo film ha rappresentato un modo per approfondire la conoscenza di un periodo storico fondamentale, ha appagato la mia curiosità ed il mio senso estetico, mi ha permesso di fare un balzo all’indietro nel tempo per scoprire come la moda fosse parte integrante dei valori di una comunità, come fosse fortemente sentito ed espresso il senso del rispetto attraverso le buone maniere e la cura per se stessi.
Vi lascio con questa riflessione di Ruth Carter, sulla moda e sul suo potere di accompagnare e diventare l’eco di cambiamenti sociali.
“Tutte le volte in cui un cambiamento è in atto nella società, c’è un movimento di giovani a trainarlo… e quando c’è un movimento per i diritti civili, c’è una moda a rappresentarlo, come a significare “io mi vesto così perché voglio esprimere la mia solidarietà nei confronti di questo cambiamento”. Cambiamo look quando vogliamo cambiare la percezione di chi siamo, e penso che sia stato così sin dal passato, dagli anni ’40, dalle giacche che rappresentarono il famoso rioting in Los Angeles. All’interno del movimento delle Black Panther, il dolcevita nero divenne un vero e proprio simbolo di appartenenza. Le tute di Selma, con la camicia bianca e la cravatta nera…lo stesso. Allora, c’è sempre una moda che segue e rappresenta i momenti di disordine e di inquietitudine, oggi sono i jeans sgualciti, senza forme… é sempre qualcosa che va contro ciò che la società conservatrice si aspetterebbe. Un mezzo potente che ha portato nel tempo a raggiungere il senso del cambiamento, una nuova epoca e una nuova forma di pensiero”.
Foto e intervista tratte da: Refinery29
Buone vacanze a tutti