Semiotica, pub e altri piaceri, di Alexander McCall Smith

Creato il 16 settembre 2011 da Fabry2010

di Guido Michelone

C’è anche un pezzo di Stivale o Bel paese in questo nuovo bellissimo romanzo di Alexander McCall Smith prolifico autore scozzese, notissimo in tutto il mondo (anche quale accademico, impegnato nel diritto e nella bioetica), ma ancora poco seguito in Italia: su parla di vini rossi (anche francesi, spagnoli, californiani) e soprattutto di studio forzato della nostra lingua da parte di uno dei tanti protagonisti: il più giovane, il più ribelle e il più simpatico. Per il resto è tutto un libro molto scottish, o meglio il gustoso ritrattato dei nuovi fermenti nell’antica città di Edimburgo, famosa per la cultura, la flemma, le arti, il quieto vivere e una sottile ironia che serpeggia, con raffinata intelligenza, anche in ogni pagina di un divertente libro corale. Dunque, con destrezza affabulatoria e vena satireggiante, McCall Smith mette in scena la routine quotidiana degli inquilini di una palazzina al 44 della centralissima Scotland Street: nei giorni ancora caldi di inizio settembre, Pat, Domenica, Bruce, Matthew, Lou, Fairbairn, Angus, il cane Cyril, Ramsey, il piccolo Bertie con i due genitori e i compagni di scuola, compongono un grosso mosaico coloratissimo della borghesia edimburghese, un po’ snob e radical chic, tentata dal politically correct a ogni costo. L’autore, con estremo realismo, sempre venato da uno humour britannico (che più o meno inconsciamente attinge a immense tradizioni letterarie autoctone), rappresenta un microcosmo urbano, alle prese con problemi giornalieri in apparenza banali, anche se dietro una normale tranquillità socioesistenziale, tutta una serie di desideri, frustrazioni, ansie, velleità, che da un lato appartengono allo specimen edimburghese, dall’altro acquistano valenze universali, spiegando meglio di astrusi trattati, soprattutto le dinamiche interpersonali del mondo odierno. In particolare nel personaggio di Bertie, bambino di sei anni, obbligato dalla madre cultrice di Melanie Klein, a seguire corsi di yoga, sassofono, lingua italiana e sedute psicanalitiche e a proibire il rugby e i jeans (a favore di orrrende salopette rosa) per combattere rispettivamente il maschilismo dello sport e dei pantaloni, viene dipinta la complessa inutile astrusità di un presente fintamente democratico, liberato o autoaffermante. Difficile andare oltre nel riassumere un libro che alterna le disavventure di figure colte in situazioni paradossali che appunto inducono al sorriso o alla risata, per la bravura di McCall Smith nel giostrarsi in contesti via via anomali, imbarazzanti, esagerati o inopportuni, senza mai cadere in volgarità o turpiloquio. L’unico neo per l’edizione italiana riguarda il titolo (che riprende quello del primo dei 105 brevi capitoli) inutilmente astruso e fuorviante, perché di semiotica non si parla affatto (tranne in un paio di battute del padre di Pat) e il pub è meta neanche frequentissima solo di un paio di personaggi; restano, sì, i piaceri tanto ambiti, ma quasi mai interamente raggiunti; e forse tra questi piaceri si annida anche quello del titolo originale, Espresso Tales, i racconti dell’espresso, parola che pure manca in traduzione, benché il caffè caldo sia una costante, assai più del classico tè inglese, di questi amabili, simpatici, piacioni edimburgesi, in un romanzo da consigliare a chiunque abbia voglia di leggere, imparare e divertirsi.



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