CHI SI E' PERMESSO DI DIRE UNA COSA COSI' RAZZISTA????
VOGLIO SAPERE CHI E' QUESTO XENOFOBO RAZZZZZIIIIIISTAAAA!!!!
CHI E'? UN LEGHISTA? UN FASCIO? UN NAZISTA?
DITEMI CHI E' STATO!!!!!!
Genova - «Senegalesi, tornate a casa. E se siete a casa, non venite in Italia». L’invito è lo stesso che urlano con motivazioni (politiche) i militanti della lega e con odio (razzista) le frange estreme del popolo degli stadi. E però che differenza se a lanciarlo è un uomo di Dakar che vive a Genova dal 2008 e ha deciso di trasformare l’esperienza di una generazione di emigranti in un film-documento che sarà girato nel ghetto, il cuore degradato del centro storico. Bira Wade Ndiaye, 35 anni, senegalese di Dakar, ha visto i suoi sogni sfumare davanti alla realtà fatta di umiliazioni e espedienti, torti subìti e miraggi di una ricchezza fatta di attività sporche, «droga e prostituzione». E si è convinto che esistono molte più possibilità in Africa che nella vecchia Europa travolta dalla crisi: per questo ripartirà al più presto utilizzando le opportunità del progetto per il «ritorno volontario assistito» (1.276 i rientri dall’Italia in quattro anni) finanziato dall’Unione europea e dal ministero dell’Interno. L’esperienza è il nome che ciascuno dà ai propri errori, scriveva Oscar Wilde. E dopo aver girato mezza Europa (e dopo 4 anni e 8 mesi trascorsi a Genova lontano dalla moglie e da due figli che non ha visto crescere) Bira ha deciso di tornare. E far conoscere (attraverso una lunga serie di interviste) la sua esperienza e quella di altri che, come lui, vorrebbero non essere mai partiti. «A Dakar studiavo lingue all’Università e lavoravo come impiegato presso una ong che opera nel mondo della cooperazione internazionale - racconta - ho lavorato in Francia e in Colombia, nel 2007 in Belgio e l’anno dopo in Spagna. Finché un amico mi ha invitato in Italia, a Genova». La realtà è diversa dal sogno, vendere merce contraffatta per strada e nelle spiagge è l’attività che consente agli immigrati di Dakar di vivere. Fuori dalle regole ma senza lo stigma dei mercanti di morte e dei trafficanti umani. Senegalesi brava gente, come gli italiani all’estero, nell’immaginario collettivo. Quando arriva una sanatoria per i clandestini , Bira Wade Ndiaye finisce nelle mani sbagliate: segue le voci dei vicoli e viene convinto da un truffatore a pagare duemila euro in contanti per una pratica dall’esito «garantito sicuro». Chi lo ha raggirato sarà arrestato ma lui non ha ancora riavuto indietro i suoi soldi messi assieme nel corso di tanti mesi. «Noi senegalesi siamo sempre stati ben visti, fare il vu cumprà non è un lavoro dignitoso ma fino a poco tempo fa consentiva di vivere». Oggi non più, non ci sono soldi e i controlli della Guardia di finanza si sono fatti più intensi, i sequestri di merce contraffatta agli ambulanti sono continui. «Il bisogno spinge a fare ciò che non si vorrebbe ed è sbagliato. Così tanti miei connazionali che prima stavano lontani dai traffici dell’eroina e della prostituzione si sono trovati coinvolti in quei giri. E oggi sempre più senegalesi sono i cella, a Marassi o a Pontedecimo». L’idea di tornare a Dakar si fa strada giorno dopo giorno, Bira Wade Ndiaye ha abbastanza confidenza con il mondo della burocrazia per pianificare il rientro in modo razionale: viene a conoscenza del piano di “accompagnamento” (un modo per incoraggiare l’allontanamento volontario) che consente anche a chi non ha i documenti in regola di rientrare al Paese d’origine, cofinanziato dall’Europa e dal ministero dell’Interno. «La crisi ha travolto per primi gli immigrati, qui non possiamo più vivere - riprende - quasi tutti i miei connazionali ne sono convinti e tanto amici ora vogliono tornare. Ma non sanno come fare e hanno paura di ciò che ritroveranno in patria dopo magari dieci anni di assenza». Per questo è nato il progetto del film-documento: raccontare, attraverso le immagini e tante interviste, la vita reale degli immigrati. Per farla conoscere a chi è in Senegal e ancora sogna di venire. «E dirgli che no, si sta sicuramente meglio in Africa. Nella seconda parte, che realizzeremo a Dakar, presenteremo invece la realtà del mio paese ai miei connazionali che vivono qui e non hanno il coraggio di tornare». Con l’obiettivo di scacciare le paure: «Là oggi si vive meglio che in Italia». Il progetto ha trovato il sostegno di Afet, una delle realtà che operano nel ghetto genovese. Ed è diventato concreto nelle mani del regista Gianfranco Pangrazio (autore della serie di video “Genova, autobiografia del ’68”).