Sense of Humor

Creato il 10 ottobre 2011 da Alby87

Alcuni eventi sia personali che pubblici mi impongono questo post su una questione che mi sta incredibilmente a cuore, e la cui discussione è delle più impegnative. Sto parlando dell’umorismo.

Potreste forse domandarvi cosa ci sia di tanto difficile nel discutere dell’umorismo e della sua psicologia. Ebbene vi dico che si tratta di uno degli argomenti più difficili in assoluto; questo per via della natura stessa dell’argomento. L’umorismo è un qualcosa di personale, di estetico, di sentimentale se vogliamo. Discutere dell’umorismo è come parlare dell’amore, se l’altro non condivide la tua propria sensibilità sulla questione trasmettergliela è impossibile. Tuttavia dovrebbe essere possibile bypassare il problema raggiungendo per lo meno un chiarimento razionale del funzionamento dell’umorismo, che permetta al prossimo se non di condividere la sensibilità ad esso connessa, almeno di capirne il funzionamento ed accettarne le regole.

Quando ridiamo

Dell’umorismo è stato detto tanto. Personalmente credo che un punto di partenza possa essere la definizione pirandelliana dell’umorismo come “avvertimento del contrario”. Il meccanismo del riso scatta nel momento in cui si avverte che qualcosa non va, che qualcosa non è come dovrebbe essere.

Il senso del dover essere è per alcuni aspetti soggettivo, ma per molti altri i suoi meccanismi sono del tutto universalizzabili. La gag si basa di solito proprio sulla capacità di sorprendere il pubblico con qualcosa di assolutamente paradossale e fuori da ogni regola.

Recuperando però l’esempio pirandelliano della vecchia pesantemente truccata, dovremmo ricordare l’associazione che già allora ci era profilata fra il tragico e l’umoristico. Quando qualcosa non va come, a nostro avviso, doveva andare, all’episodio sono connesse di solito sensazioni spiacevoli. Dolore, rabbia, tristezza, depressione e frustrazione la fanno da padrone. Cado da una sedia: la gente ride e applaude, ma  io probabilmente mi faccio male. Se ho un carattere particolarmente buono e non mi son fatto molto male, magari rido anche io, ma più verosimilmente la cosa, almeno sul momento, sarà solo sorgente di fastidio e rabbia: dovevo semplicemente sedermi lì comodo comodo, e le cose non sono andate come mi aspettavo.

In effetti, la tragedia segue regole per certi aspetti simili a quelle dell’umorismo. Quanto più è inaspettata e paradossale, tanto più intristisce e terrorizza. Ci facciamo facilmente una ragione di un novantenne che muore nel suo letto, ma consideriamo una tragedia se un ventenne perde la vita in un incidente d’auto per colpa di un pirata della strada.

Non è casuale dunque l’associazione che vien spesso fatta fra il tragico e il comico, specialmente nelle forme dello humor nero.

Il riso e la tragedia

Quello che abbiamo detto sinora, e su cui credo ciascuno bene o male concorderà, ci porta a conclusioni interessanti e per qualcuno forse fastidiose. La più evidente è che non solo lo spiacevole e l’umoristico sono intimamente connessi e probabilmente inscindibili, ma anche che più grande è l’elemento spiacevole o tragico, maggiore è l’occasione umoristica.

Ho parlato di “occasione umoristica”, ovvero di un potenziale, e non di un umorismo reale e realizzato. Questo perché il tragico e l’umoristico sono stati emotivi e sensibili, non fatti esteriori. Il medesimo fatto può essere oggetto tanto dell’umorismo quanto del senso di disperazione. E non solo, le due cose sono in contrasto continuo fra loro. Quanto viene concesso al riso viene tolto alla sofferenza e viceversa. Questo contrasto continuo, questa perenne contraddizione fra il riso e il pianto innestati sullo stesso oggetto è quello che è fondamentale capire per comprendere come funziona l’umorismo. Il ridere e il piangere possono convivere. Anzi, è la norma, convivono sempre, visto che si contendono lo stesso territorio. Ma, appunto, se lo contendono, in una convivenza tutt’altro che pacifica.

Su cosa si ride?

Dato che il riso toglie spazio alla tragedia e al dolore, e dato che il riso è bello, a questa domanda si può rispondere molto facilmente:  sulle stesse cose su cui si piange. E dato che il mondo offre tante occasioni di pianto, possiamo esserne grati: abbiamo altrettante occasioni di riso.

Ma per quello che si è detto finora, e anche per il comune buon senso, è chiaro che non potremo ridere e piangere insieme. Potremmo essere tentati di credere in effetti che il riso possa essere sempre appropriato, in quanto scaccia il dolore. In realtà non è così semplice, poiché anche il dolore è parte dell’animo umano, e per strano che possa apparire a chi ha scarso spirito psicologico, a volte desideriamo soffri re. La sofferenza entro certi limiti è adattiva, e il suo spazio va rispettato. Inoltre, che noi lo vogliamo o meno, la tragedia saprà prendersi gli spazi che le competono; essa è un male necessario, per così dire, un incendio che deve bruciare prima di estinguersi. Ma verso la fine del rogo, come una rinfrescante pioggerellina, il riso potrà intervenire a spegnere le braci e rendere la pace.

In questo senso il riso rappresenta da un lato una terapia per la sofferenza, e dall’altro un sintomo della guarigione. Ove c’è sofferenze, il riso sincero va accolto sempre con la soddisfazione e la gioia con cui si accolgono i primi passi dopo una frattura guarita.

Alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo possiamo dunque rispondere: tutto! Ma nel momento appropriato. Come non si può camminare su una gamba rotta, non si può ridere su una ferita emotiva ancora aperta. Il che ci porta al prossimo punto:

L’umorismo sul banco degli imputati

“L’umorismo, come indica la parola stessa, inumidisce e ammorbidisce, conferendo alla vita un tocco ordinario; poiché incoraggia l’autoriflessione e prende le distanze dal senso di importanza personale, l’umorismo è fumo negli occhi per il delirio di grandezza. Poiché ci pone su un gradino più basso, è essenziale per crescere cioè discendere. La risata che dà riconoscimento alla nostra assurdità di comparse nella commedia umana è altrettanto efficace per scacciare il diavolo dell’aglio e della croce per scacciare i vampiri. Lo aveva capito Chaplin, che nel suo film “Il grande dittatore” non si limita a ridicolizzare Hitler, ma rivela l’assurdità, la trivialità e la tragicità dell’inflazione demoniaca.”

Questa bellissima citazione da James Hillmann afferra nel pieno l’importanza e la potenza dell’umorismo. La sua stessa forza curativa sta proprio nella sua capacità di “ammorbidire” la tragedia, di diminuire la grandezza e l’importanza del problema, di riportare le cose nella giusta ottica. Se avete sofferto di depressione, avrete ben presente il senso di assoluta angoscia che accompagna una crisi: tutto l’universo si riduce al proprio specifico problema, tutte le soluzione e le vie di fuga, tutte le persone che ci sono vicine, svaniscono, inghiottite dalla voragine di una tragedia che sembra non avere fondo. L’immensità della tragedia viene facilmente ridotta dalla potenza dissacrante dell’umorismo, che depotenzia il problema e riporta tutto a dimensioni normali.

Se c’è un’accusa che può essere rivolta all’umorismo, dunque, l’unica è quella di depotenziare i problemi. Nel momento in cui sono fatti oggetto di umorismo, i problemi sono “meno seri”. Questo può non essere sempre appropriato, come abbiamo già detto. Sono appena caduto da una sedia, mi fa ancora male tutto, non avrò gran voglia di ridere, adesso. Ma dopo sarà bello che io rida, sarà giusto che io rida, sarà addirittura un dovere verso me stesso che io rida. L’umorismo sopraggiunge quando il problema non è mai esistito oppure è elaborato. Ma a quel punto deve arrivare.

Quando qualcuno vi viene a dire “guarda che su certe cose non si scherza mai”, è fondamentale capire che quella è una reazione narcisistica al depotenziamento. Questo problema, vi viene detto, è serio, è enorme, e soprattutto non è superabile. È la medesima reazione del depresso che non tollera si scherzi sui suoi problemi, perché in quel momento la sua esigenza specifica è proprio soffrire. A volte tale esigenza è legittima, ma va riconosciuta per quello che è, un desiderio autolesionistico.

“Non voglio ridere sulla Shoah, sulla Shoah non riderò MAI!”

Una frase così vuol dire che non ho intenzione di elaborare completamente quel lutto, voglio continuare a versare lacrime tutta la vita; una parte di me non vuole superarlo. Questo non volere/non potere, ovviamente, genera un comprensibile senso di ira verso chi invece è in grado di superare il problema o non lo avverte proprio. L’attacco all’umorismo è finalizzato specificamente a mantenere la centralità e l’importanza totalizzante degli aspetti tragici: timore, riverenza, disperazione, tristezza. Il suo rifiuto vuol consegnare sottrarre alla dimensione reale e storica una tragedia, per consegnarla all’eternità, al dramma infinito. Affermare che sulla Shoah non si scherza non vuol dire affermare che il dramma e la tragedia non vanno dimenticate, ma significa affermare che non devono mai essere superate, che la vita dopo “non continua”, l’umanità non si riprende. The show mustn’t go on.

Questo è un messaggio di tragedia e di morte universale che va riconosciuto come tale. Di solito, però, quando si afferma “su certe cose non si scherza mai”, non si ha certo consapevolezza della portata drammatica di quanto si è detto. Di norma, è solo una facciata di perbenismo. Quelli che ti dicono che sulla Shoah non si scherza di norma non si ricordano mai nemmeno che è accaduta, la Shoah; vivono le loro vita tranquillamente, superano i propri lutti, mandano i soldati in guerra, sono spesso razzisti e xenofobi e sono pronti a linciare oggi extracomunitari, gay e avversari politici con la stessa foga da leggi razziali del nazismo. La Shoah l’hanno superata benissimo, anzi, è un problema che per loro non è mai esistito e mai li ha sfiorati, non un fatto storico ma una favola per far paura ai bambini, e al contempo un idolo di fronte al quale genuflettersi. Non devono curarsi con l’humor, perché non sono mai stati male, ma deve sembrare che lo siano, visto che ci hanno insegnato che la sofferenza è un valore positivo.

Chi non sa ridere

E qui torniamo, infine, al problema di cui accennavo in principio: è così difficile parlare dell’umorismo perché alcuni non sanno ridere di certe cose. La sensibilità all’umorismo è una questione psicologicamente complessa, perché coinvolge l’autostima, la considerazione del prossimo, e in generale il modo di affrontare la vita. Non si può “insegnare” a ridere. Guardando Fantozzi ridi se hai sense of humor, oppure piangi se non ne hai. E non ti si può far capire intimamente perché fa ridere, ti si può solo spiegare a parole i meccanismi che vi sono dietro.

Tuttavia fra il non riuscire a ridere di un qualcosa, e l’indignarsi e arrabbiarsi per esso, c’è un passo in più. C’è lo scarso sense of humor, ok; c’è il senso esagerato dell’importanza di se stessi e di questo o quel problema, ok. Ma c’è anche un problema di autentica scarsa intelligenza.

Mi spiego: la realtà così com’è offre senz’altro occasioni di riso, ma per chi voglia suscitare il riso nel prossimo per professione, è quasi una norma la necessità di esagerare gli aspetti paradossali e buffi della realtà. Nell’umorismo e nella comicità, l’invenzione, il paradosso assoluto, l’incredibile, sono una regola non scritta. Per questo sono classiche le barzellette sui pazzi e sui carabinieri, che in effetti sono solo maschere, personaggi inventati, non autentici malati psichiatrici o autentici carabinieri. Nel momento in cui si voglia suscitare il riso, si entra in una finzione, in una specie di regno magico di Tolkien in ci le regole della realtà non contano.

Deve essere assolutamente chiaro quando si sta scherzando, questo è sottointeso. Se io non faccio sul serio, e ciò è evidente, io di fatto posso dire tutto quello che voglio, devo poterlo fare. Tanto è una finzione, è come un romanzo fantasy. Non solo cercare di impedirmelo è una violazione della mia libertà, ma è anche stupido. Offendersi, prendersela, non è solo una questione di sensibilità personale, è proprio stupido, è questione di intelligenza e logica; significa credere alle favole, confondere la fantasia con la realtà come dei bambini un po’ scemi.

Ho poco diritto di prendermela per dello humor quanto invece ne ho di offendermi quando qualcuno fa sul serio, magari giocando volutamente con una ferita aperta. E in ogni caso anche qui vi sarebbero limitazioni ulteriori fra il prendersela e l’agire, il diventare violento, insultare e opprimere.

È ben possibile, in realtà, che fra i due estremi del discorso serio e quello umoristico ci siano gradi intermedi, che il regno immaginario dello humor somigli effettivamente al nostro, e che tali somiglianze siano anche volute. È il caso ad esempio della satira, che vuole ricordare gli aspetti paradossali della realtà esagerandoli. Ma in ogni caso, anche questa resta una caricatura, e non una seria riproduzione della realtà. E comunque, se proprio ci causa dei problemi e non riusciamo a stare allo scherzo … be’, abbiamo le armi per rispondere, perché l’umorismo è semplice e alla portata di tutti.

Ossequi


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