Senso relativo

Creato il 11 dicembre 2013 da Lundici @lundici_it

By Jeremy Bentham

I leader sono ritenuti potenti generatori di consenso culturale, umano e politico.

Tutto ciò è reale o è solo un’illusione creata ad hoc dall’immaginario collettivo?

La morte di Mandela è l’ultimo incontro dell’umanità con uno dei leader politici che si è certi abbia contribuito a scrivere la Storia. Ma è così? Così la Storia realmente si invera o è solo un modo più veloce di sintetizzare larghi e infiniti (som)movimenti materiali, di costume, antropologici, economici, industriali che vanno al di là dei presunti condottieri del pensiero in progresso?

Mandela Madiba il fustigatore dell’apartheid, Luther King l’ariete contro la segregazione, Kennedy e la nuova frontiera, Gandhi e la non violenza, sono solo quattro esempi che sui libri di storia e nella vulgata comune giocano il ruolo di uomini speciali capaci di aver ribaltato alcuni luoghi comuni, finanche leggi scritte e non scritte. Eppure permane un dubbio che le loro parole, il loro pensiero siano più a favore delle numerose speculazioni intellettuali che di un accrescimento dell’educazione culturale tout court.

Nessuno cambia il mondo da solo, eppure nella sunnominata prassi occidentale, un po’ raccogliticcia, i quattro esempi riportati sembrano aver impresso un’accelerata determinante alle sorti magnifiche del pensiero politico degli uomini e delle donne del mondo globalizzato. Anzi, forse, si può dire che siano stati i fautori del mondo globalizzato in ambito politico. Nessuno, avvicinandosi ad un’analisi della politica o ad un semplice impegno politico di militanza, può, considerati i parametri non scritti ma ritenuti ineliminabili, sottrarsi da un riconoscimento nei valori da quei leader veicolati.

Nessuno, nel mondo occidentale, può esimersi dal prendere come punto di riferimento gli insegnamenti dei grandi uomini che la storia insegna essere ineludibili. Nonostante la storia sia molto più complessa di quattro uomini e soprattutto dimostri, nel suo fluire, di come sia impossibile che dalle parole di un essere umano possa prodursi un cambiamento.

Un atteggiamento cieco e credulone che spinge gli uomini a indulgere nell’utopia o nella speranza, con una forma intellettuale che è molto affine alla prammatica religiosa e, nei casi peggiori, ad un’auto-indotta estasi mistica nei confronti di un leader.

Tutto, dunque, rimane a livello di adesione superficiale, quasi che le parole dei giganti fossero l’orpello utile alla sostanza fallace dei presunti leader contemporanei. Ma il dramma non sta tanto nella comparazione tra Mandela e la Merkel, o tra Luther King e Letta, piuttosto si concretizza nella consapevolezza che le parole di quei leader non abbiano mai contato veramente. Se non sublimate in slogan da tazebao ossequioso e militante o in prodotti artistici, schemi sociologici, a volte quadri psicanalitici.

Non è ridondante affermare che un italiano possa essere influenzato di più dai contro-valori di Cosa Nostra e, nella fattispecie, dalla sua cultura mafiosa di prevaricazione dell’altro da sé, piuttosto che dall’esempio di rigore dato da De Gasperi all’indomani del disastro bellico patito dal Bel Paese. O dalla vicenda tragica degli uomini del supposto Stato martirizzati in mille rivoli di tritolo.

Così vale per un sudafricano: è più facile immaginarlo inzuppato nella bassa cultura della corruzione e del razzismo ancora stagnanti e dilaganti nelle towns che dall’esempio di misericordia e carisma offerto a lui dall’appena scomparso Madiba.

C’è un altro aspetto, tuttavia, su cui soffermarsi. Vi sono pensatori, scrittori, artisti, scienziati che forse meriterebbero lo stesso trattamento di favore – icone tra la plebe -, ma che vengono ignorati perché è alla politica, al presenzialismo politico che si dà, da sempre, la maggiore importanza in termini di carisma e rilevanza decisiva per i destini dell’umanità.

Su questa scorta, in Italia, soprattutto nei mezzi di informazione e, purtroppo, di conseguenza, in molti studi accademici, si dedica un’attenzione devastante ai politici, visti, di volta in volta, come i possibili salvatori della patria o, nella peggiore delle ipotesi, come mostri affamatori di popoli. In soldoni, si concede loro una capacità d’incidere, sia nel bene che nel male, che è senza dubbio esagerata o, addirittura, inesistente. E non per demeriti o meriti del presunto leader in sé, ma perché la Storia veleggia sopra gli eroi e le tombe e segue il suo percorso come le forze della natura.

Certamente è più influente per la vita di un cittadino un contratto “take or pay” in ambito energetico, che un discorso di qualsiasi politico che sia in una piazza o in una televisione patinata. Allo stesso modo, è più influente, per gli animi letterari, un qualsiasi potente romanzo che la tanto citata, celebrata e sopravvalutata Bad Godesberg nel contesto del socialismo europeo.

La portata della Storia è tanto totalizzante quanto ignorata.  Ed è ignorata se si parla di rifiuti a Napoli, credendo che sia un problema degli ultimi anni, quando invece, in ogni rimando alla monnezza partenopea, si dovrebbe ricordare che tale cronica criticità è descritta sin dall’Unità d’Italia. Ciò può essere traslato in molti campi: dall’emigrazione, oggi chiamata fuga dei cervelli (mentre gli italiani emigrano da quando esistono), o al problema carcerario, evidenziato già dagli anni Sessanta. Invece tutto sembra afferente alla sfera dell’immediato, del qui e adesso, causando, così, l’attesa del liberatore, del profeta, dell’uomo nuovo.

Ogni elaborazione intellettuale prodotta dalla Cultura (alta o bassa poco importa) inocula la convinzione nell’uomo della strada, o nel cittadino, che la speranza di un Messia è sempre vicina a giungere. Un atteggiamento chassidico, sebbene molti uomini della strada o cittadini non siano minimamente sfiorati dai fatti politici della quotidianità.

Mediati dalla tecnologia veloce che regola il flusso delle informazioni, gli uomini della strada o i cittadini sono appesi all’evento della cronaca. Istantanee notizie prendono il sopravvento su riflessioni più lungimiranti e profonde. Ecco che, nella miseria della vita italiana, i media enfatizzano l’attesa per la politica fino al limite massimo, facendo risultare il congresso di un partito, il vaffa di una piazza, o la sentenza di un delinquente come dirimenti situazioni di svolta. Il cittadino o l’uomo della strada, se vuole tenersi aggiornato, rischia l’eccesso di informazioni (con il conseguente rischio di avere un rigetto), ritenendo di essere emarginato dal mondo nel caso perda il filo del discorso del politico che fonda, in un evento, un nuovo movimento.

Pochi si accorgono che la Storia non menzionerà neanche per sbaglio tale evento mediato, camuffato come politico, proprio perché assolutamente irrilevante. Della seconda repubblica italiana rimarrà poco in un futuro compendio scritto sulla storia mondiale del XXI secolo. Un paragrafo, forse con note, perso tra i capitoli, di anni che, oggi, si sussumono cruciali per un possibile cambiamento o una più probabile conservazione della realtà. Per esemplificare la futilità dalle cronache istantanee, sarà certamente più importante discorrere tra un secolo, in riferimento al dicembre 2013, dell’occupazione dei palazzi thailandesi da parte del popolo che della vittoria alle primarie di Matteo Renzi.

Eppure permane lo stesso dubbio di cui sopra. Se non influiscono in maniera determinante l’esempio di mostri sacri come quelli su menzionati, è mai possibile che un leader nuovo, o alcuni uomini di buona volontà cambino il destino di un Paese, di un territorio, di una storia?

Nella relazione firmata dal professor Pietro Rocchini, egli descrive il terrorista Preiti, che sparò ad aprile a Montecitorio in concomitanza dell’insediamento del governo largheintese, in questo modo: “Al momento del fatto l’imputato presentava un modesto disturbo depressivo in un soggetto portatore di un disturbo di personalità. Tali componenti non avevano rilevanza psichiatrica forense e dunque per le loro caratteristiche e intensità non incidevano in modo significativo sulla sua capacità di intendere e di volere”.

Non era pazzo Preiti, forse era animato da qualcun altro, sicuramente credeva di essere al centro della Storia ed era lì, con la sua pistola, pronto a cambiarla. Poverino, verrebbe da dire se non fosse un criminale, aveva sbagliato tutto. Lì, a Montecitorio, quel giorno, non si decideva proprio niente.


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