Parole che perimetrano un luogo fantastico di accadimenti bislacchi ed eccentrici come eccentrico è il segno lasciato da un compasso estremo che racchiuda in sé la pianura, la risaia, un mare forse illegittimo e quel gracidio stolido di rane perenni che avvolgono come un umido manto una stagione che è tutte le stagioni: afa, gelo, neve, pioggia battente, brezza di mare e di terra che parte e arriva neanche lei sa bene dove, purché a delimitare paesi e paesoni dalla toponomastica di santi lisergici il cui patronimico va ben oltre l’elenco esaustivo di un calendario ormai strapieno di martiri dalle crocefissioni di fuoco e dalle mutilazioni catartiche. Un bar, forse avamposto di liquefazione di vite paesane, che ospita il dipanarsi di una storia mimetica nella parlata da gramelot padano di filosofi dalle menti peripatetiche avvezze a sdoganare il tutto e il niente che nasce e muore dal confine delimitato da marcite fangose e da aromi salmastri di mari clandestini che nascono dal coniugio fantastico di una terra (in)esistente in cui Fellini ha incontrato Borges mentre Ermanno Cavazzoni redigeva, triste solitario y final, il verbale di cotanto convegno. Preti svagati, svenevoli, vanesi e fatui, attori e convenuti al contempo di appuntamenti erotici con bellezze dal soffice tono muscolare avanguardista e sempre dimentiche delle loro mutande, filosofi da lor stessi per primi incompresi che vanno a mungere e vendemmiare stilemi di improbabili, ma al contempo lucidissime, chiarificazioni rinascimentali, bizantine, leonardesche e vitruviane. Perpetue manzoniane, ma anche guareschiane, dal grilletto facile che esternano ai carabinieri, che paion gendarmi pontifici alla ricerca del Pelloni Stefano detto il Passatore, un’eterna confessione di avvenute terminazioni per l'asepsi immortale dell’anima e del buon nome di Santa Romana Chiesa. C’era nei Settanta un bolognese dal nome di Pupi Avati che aveva girato, in quella stessa padania dalla estrema favola che è la stessa forse del Paolo Colagrande, ivi sempiterno autore, un film dal titolo La casa dalle finestre che ridono dove alla fine (quella fine che un cinematografico poster dell’epoca diceva “non riuscirete a sapere nemmeno con una soffiata”) il prete dalla presunta bonaria ciccia si spogliava della ecclesiastica vesta per giungere all’ostensione di una vecchia femmina dalle sadiche voglie omicide e torturatrici. Ecco, Senti le rane non è che sia poi un librettuccio leggero di favella svelta, no, Senti le rane è un padano e potente Necrocromicon, un buco nero orrorifico in cui tutte le parole vengono risucchiate perché prima si risucchian le parole e poi si fa lo stesso con gli umani che hanno avuto la baldanza proterva, o la mestizia disattenta, di proferirle. Amen.
Un libro.
Senti le rane, di Paolo Colagrande (nottetempo).
Magazine Cultura
Senti le rane, di Paolo Colagrande (nottetempo)
Creato il 12 gennaio 2016 da Angeloricci @angeloricciPotrebbero interessarti anche :