Silvia Boiani – “Senza tempo”
Fu la musica a svegliarlo.
Aprì gli occhi e si guardò intorno sconcertato.
Era sdraiato sul pavimento di un’osteria dalle volte altissime, di pietra, con bottiglie, bottiglie e ancora bottiglie, un clima fresco da cantina, le luci basse. Solo, non ricordava di esserci mai entrato. Anzi. Non ricordava proprio nulla. Il suo passato recente. Il suo passato remoto. Neppure il suo nome.
Niente finestre, in quell’osteria. Solo una scala che portava di sopra.
Si rizzò in piedi. E si sentì raggelare.
C’era un uomo riverso per terra, faccia in giù al centro del locale, in un lago di sangue. Al suo fianco, una bottiglia rotta.
Dietro il bancone una ragazza. Aveva un costume da Wonder Woman, era legata a una sedia e imbavagliata, gli occhi chiusi. Forse dormiva, forse era svenuta, forse era morta.
Dalla radio usciva una canzone di Vasco Rossi. Diceva… Io sono ancora qua, eh già!
In quel momento sentì i passi sulle scale.
Si nascose dietro il drappo di una tenda di velluto verde, che scendeva, polverosa e pesante, fino a toccare il pavimento umido. Circondato dal buio quasi totale, riuscì a posizionarsi tra due pile di casse di birra. Andò a tentoni oltre le casse, ma si rese conto che il suo spazio era finito lì. Oltre. c’era il muro, umido anch’esso. Immobile, tentava di reprimere un affanno doloroso, che quasi gli squarciava il petto. Dove si trovava? Chi aveva ucciso quell’uomo? Chi era quella donna? Tra l’assoluto stordimento, si sentiva sequestrato da se stesso.
Scesero due uomini e dalle loro parole sbiascicate si intuiva che avevano abusato di alcol. A giudicare dalle voci, si trattava di un uomo di mezza età e di un ragazzo.
«Dobbiamo farlo sparire, poi penseremo a lei. Prima, però, un goccetto non guasta» Così dicendo, l’uomo stappò due bottiglie di birra, e ne porse una al suo amico.
«Ma che cazzo s’è messa addosso questa cretina?» chiese il ragazzo con voce spavalda, il cui percettibile tremore tradiva uno stato d’ansia.
«Fai sempre domande. Non hai ancora capito che al capo piacciono certi giochetti erotici?»
«Eh! È bello vedere Wonder Woman legata con la sua stessa corda. In effetti… un pensierino ce lo farei anche io»
«Smettila! La ragazza è proprietà esclusiva del capo, lo sai benissimo. Facciamo presto, prima che riprenda conoscenza»
«Proprietà esclusiva del capo! E questo babbeo, secondo te, chi è?»
«Il fidanzato non conta, lascia perdere. E poi ficcava troppo il naso negli affari degli altri»
«Per un bocconcino così, ce lo ficcherei anche io… il naso»
Si sentiva avvolto sempre più da una sensazione claustrofobica. Più ascoltava quelle parole volgari e più sperava di non appartenere a quella specie di genere umano.
La confusione mentale non accennava a diminuire. Si sentiva in apnea.
«Se l’è cercata. Doveva tenersi alla larga da questa faccenda, come gli era stato già detto»
«Sì, ma squartarlo così, come un vitello…»
«Bevi ragazzo, bevi»
Era finalmente riuscito a rallentare il ritmo cardiaco, procedendo con respiri profondi e silenziosi. Scostata la tenda di velluto di qualche centimetro, potè vedere la ragazza. La sua pelle sembrava porcellana, e i capelli neri seta; erano lunghi e, trattenuti da una coroncina dorata, mostravano il volto della giovane donna. La sua bellezza non comune gli provocò un fremito che lo portò a reagire: sentiva l’istinto di proteggere la ragazza, di certo ostaggio di quel mondo di delinquenti.
La paura aveva ceduto il passo alla rabbia e al coraggio. Doveva fare qualcosa, però si sentiva frenato, bloccato.
«Finisci di pulire, non possiamo toccarlo se non togli tutto questo sangue. Senti, vado a prendere il telo»
Scostò il drappo per guardare la situazione. Vide il ragazzo chinarsi e poi velocemente rovistare nelle tasche della giacca del cadavere. Tirò fuori un portafoglio di cuoio dal quale estrasse tutte le banconote che trasferì nella tasca dei suoi jeans. Poi trovò anche un oggetto che alzò per osservare meglio: era un vecchio orologio da tasca con catena d’oro.
Si sentì trafiggere da un getto d’aria gelida, che in un istante spazzò il caos dalla sua mente. L’orologio si era fermato, ma lui continuava a star lì, a guardare, a patire.
Solo un istante per capire che non c’era più tempo. Uscì fuori dalla tenda, come fa un attore quando saluta per l’ultima volta il suo pubblico. Sentiva il passo leggero, e il gelo si era dissipato. Non sentiva più niente. Una volta avvicinato alla ragazza, la avvolse con un abbraccio impalpabile, sussurrandole: «Ti amo, ti ho sempre amato, Clelia»
Io sono ancora qua, eh già!
Scritto per la terza edizione del concorso Turno di notte indetto dalle Officine Wort. L’incipit, in grassetto, è stato scritto dallo scrittore Gianluca Morozzi.