Questo racconto a quattro mani, della premiata ditta (Collins-Dickens), si presenta, fin da subito, come poco più di un divertissement. Il tema classico del trovatello (e della possibile sostituzione di persone, e di eredità nascoste) lo proietta nel solco della più consumata prassi tanto di Dickens, quanto di Wilkie Collins. Mentre la struttura forte (e teatrale: prologhi e atti; e qui la mano è quella di Collins) che lo compone garantisce uno svolgimento impeccabile, con pochissimi personaggi (elemento, quest’ultimo, inusuale in Dickens) e la possibilità di costruire un intreccio-prototipo, con movimenti limpidi ed essenziali.
In un contesto del genere, gli elementi di suspence sono in realtà ridotti all’osso, e non coinvolgono tanto la comprensione dell’orientamento assiologico del racconto (in realtà indizi espliciti fino alla dichiarazione schietta ci fanno capire quasi da subito chi sia cattivo e chi sia buono) quanto l’incertezza su una possibile (e cruciale) sostituzione di identità.
In mezzo, la solita avventura del giovane eroe che deve meritarsi non tanto l’amore, quanto la mano della bella fanciulla, questioni di patrimoni, come sempre e un po’ di esotico noir sulla montagna svizzera. E uno scioglimento finale (e avvocatesco) che riporta tutti i personaggi sulla scena, raccolti intorno a un tavolo di rivelazioni legali che (c’è bisogno di dirlo?) premierà soltanto i buoni.
Niente di più, certo. Ma la scrittura è solida, divertita, ironica. Un bel modo di passare comunque un pomeriggio. Che è già, di per sé, motivo di promozione del racconto: un solido e compatto “niente di meno”.
E, con la notizia di questo testo poco noto, ma piacevole, la ‘povna partecipa anche oggi, al volo e raffreddatissima, al venerdì del libro.