Qualche tempo fa discutevo con degli stimati colleghi. Il tema di questa chiacchierata non era molto allegro, anche se noi in fondo ci abbiamo riso su. Si diceva, più o meno all’unanimità: “la cosa più tremenda, nel caso mi ammalassi, sarebbe quella di non poter completare ciò che sto scrivendo“.
Che può sembrare follia – e forse lo è – ma è anche un pensiero piuttosto onesto e, a quanto pare, molto diffuso nel settore. Mi spingo più in là e credo che anche un musicista o un cineasta affermerebbero più o meno la stessa cosa.
Forse è un sentimento che subentra con l’età, chissà, eppure la vedo davvero in tal modo. Se dovessi ammalarmi di qualcosa di brutto, il primo dispiacere sarebbe proprio quello di dover sospendere le mie attività da autore.
Non so da cosa dipenda questa considerazione.
Dall’età, forse, come dicevamo poche righe fa.
Un amico mi ha detto che è sintomo di professionalità (malattia brutta, in campo letterario, dove va di moda dire “io scrivo per passione“). Se temo di non poter più scrivere è perché considero tale attività come un lavoro fatto e finito.
C’è poi la componente emozionale della scrittura. Per me è un’attività che sicuramente migliora le mie giornate, anzi, spesso dà loro un senso che viceversa faticherei a trovare. In altre parole, scrivere è un completamento della mia vita, ma non in senso astratto, come dicono certi radical chic. Se un giorno dovessi smettere contro la mia volontà, subirei un grosso squilibrio emotivo.
Ovviamente potrebbe esserci anche un risvolto negativo, in tanto stakanovismo. Una dipendenza dal lavoro che, seppur sia un lavoro piacevole e “cercato”, dovrebbe presupporre dei momenti in cui si riesce a farne a meno. Viceversa si rischia di scimmiottare certi cliché visti nei film, in cui il protagonista (di solito un manager, un broker o qualcosa così) è talmente assuefatto dal lavoro da non riuscire a staccare nemmeno quando i medici gli dicono che una malattia grave lo farà schiattare entro un paio di mesi.
Ma le attività creative innestano qualche meccanismo psicologico in più? Secondo me sì.
Forse chi se ne occupa sente il dovere di dare un senso di continuità alle sue opere, sia per sé stesso che per chi né usufruisce. Da qui nasce quella sensazione strana, di non aver mai fatto abbastanza, di poter dire/dare ancora qualcosa. Anche se, ragionando in tal modo, va da sé che non ci sarà mai un punto di arrivo, né un momento opportuno per smettere, anche se spesso ci sembrerà di essere così stanchi da voler mollare tutto per dedicarci ad altro.
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