Sequel un po’ furbo, un po’ freddo

Creato il 21 giugno 2022 da Annalife @Annalisa
Il ritorno di Marcus e Gahalowood

E così, Joël Dicker mi ha di nuovo accalappiato. Perché devo subito dire che, a dispetto delle magagne, io, a leggere questo libro, mi sono divertita molto.

Ho un cane che ha bisogno di essere portato fuori ogni mattina, e visto che alle otto giriamo già immersi nei trenta gradi centigradi, va da sé che, se si vuole andare in giro con un po’ di calma e senza far ansimare me e lui, è necessario uscire prestissimo.
Ma sabato sera ho iniziato l’ultimo romanzo di Dicker, e domenica l’ho letto in ogni momento libero e poi , la sera, ho deciso che lo avrei piantato lì per avere il piacere di ritrovarlo anche il lunedì, e invece… Invece sono andata avanti a oltranza, per scoprire che cosa era successo alla povera (?) Alaska, e a tutti i protagonisti (come al solito, una piccola folla) che si sono presentati pagina dopo pagina, circondati e conditi da tutti gli accorgimenti e gli effetti speciali cui l’autore ci ha abituati da subito:

c’è il personaggio principale, Marcus Goldman, che è anche il narratore, che è anche uno scrittore come Dicker; che ha scritto, come Dicker, un libro intitolato ad Harry Quebert; che ha intenzione di scrivere un libro su un ramo della sua famiglia vissuto a Baltimore (che invece quel monello di Dicker ha già scritto e pubblicato nel 2015), e che si imbatte in un cold case – o meglio, di un caso mal risolto nel passato – impuntandosi per fare chiarezza;

ci sono i salti temporali, raccontati in modi diversi: con le parole di Marcus, in prima persona, per avvenimenti che ondeggiano tra il 2010 (il “presente”, diciamo così) e il passato prossimo (il 2008) mentre il passato più lontano, quello del fattaccio (il 1999) viene rivelato attraverso i rapporti di polizia, gli interrogatori, o il racconto di un narratore esterno. A volte, poi, tanto per movimentare un po’ le pagine e tenerci svegli, la narrazione dei fatti da parte di uno qualunque dei personaggi viene interrotta per lasciare spazio a un flashback che ci precipita nell’ambiente e nell’azione che stavano per essere raccontati.
Complicato? Detto così, forse, ma diciamo che Dicker è più bravo di me a condurci attraverso tutti questi salti di tempo e cambi di prospettiva, perciò niente paura: in questo romanzo le alternanze descritte sono, sì, fin troppo eccessive (il flasback con dentro un flasback con una scena del passato che boh), ma certo gestite con abilità e, mi sembra, con maggior chiarezza di un paio di romanzi precedenti;

ci sono le anticipazioni: siete a pagina 54, il quadro idilliaco si conclude con: “Come potevo immaginare che…?”, e giù una frase che ti lascia con due dita nel naso perché poi la storia prosegue sui suoi binari, anche se tu sai che, prima o poi, scoprirai ciò che Marcus non poteva immaginare; oppure, a pagina 89: “Come se il mio inconscio intuisse che…”.
Però, stavolta, si tratta di cose più misurate di quanto è successo in passato, così che solleticano la curiosità senza disturbare troppo;

ci sono, come spesso accade, anche le ripetizioni: poiché alcuni episodi vengono visti da punti di vista diversi (e ogni punto di vista rivela un pezzetto in più dei fatti) capita che ci si imbatta in una mezza paginetta che è già stata letta tale e quale, solo che, stavolta, si scopre che avevamo capito male, o interpretato male una frase, o non ci avevano detto abbastanza prima, e ora che ci dicono di più, sbàm, vediamo le cose sotto un’altra luce;

ci sono le consuete giravolte sui colpevoli, cui un lettore di Dicker dovrebbe ormai essere abituato, così che se a pagina 455 siamo quasi certi di chi ha fatto cosa, a pagina 456 scopriamo con Marcus e il suo compare Gahalowood che la cosa ci lascia perplessi e che forse non è proprio così; e a pagina 482 ancora, dopo aver ricostruito in parte la vicenda, la voce dello stesso Gahalowood ci sussurra nell’orecchio (cioè, lo sussurra a Marcus Goldman): “Dubbi, scrittore, di nuovo dubbi”. E poi invece salta fuori che forse i dubbi erano inutili, e poi magari… E così via, fino al botto finale (proprio un bel botto, va’);

c’è persino, ancora, una interrogativa indiretta trattata come una domanda (ma il traduttore?): “Mi domando se c’è qualcun altro che poteva essere al corrente della relazione?”.
Al che mi viene spontaneo rispondere: “Non so, te lo domandi?”, ma poi mi fermo qui perché di errori così non ne ho più trovati;

ci sono le brevissime lezioni di Harry Quebert sulla scrittura, ma soprattutto i rimandi ai romanzi precedenti, così che chi ne sa si rinfresca la memoria, ma chi non ne sa può soltanto accorgersi di quanto ricco, complesso, intrecciato, composito e tortuoso sia l’universo del giovane scrittore Marcus Goldman. Con il rischio, però, di vedersi squadernati in chiaro molti particolari dei due romanzi precedenti (che, se fossi brava in inglese, potrei chiamare spoiler).

Insomma, c’è tutto lo stile di scrittura e di narrazione cui Dicker ci aveva abituati in passato, ma non per questo si tratta di un déja-vu. Perché la trama è nuova, disseminata di cadaveri passati e presenti, di storie tristissime o violente (o entrambe le cose), di speranze perdute, di perdite dolorose, di legami che non sono quello che paiono, di ragionamenti a volte mesti su quello che siamo o che mostriamo di essere, e, su tutto questo, tuttavia, una scrittura così limpida, chiara, pulita, che (primo) anche le pagine più truculente o desolate non disturbano e scorrono via; e (secondo) mi è stato impossibile rimandare di un altro giorno la fine: io sono una dormigliona, ma ho continuato fino a notte piena per far passare le ultime pagine e sapere “come va a finire”, così che poi ero lì, sveglia come un grillo a domandarmi che cosa mi mancava dopo questa lettura così rapida e disinvolta.

Ecco, probabilmente mi sono mancate le prediche di Quebert che, se nell’altro romanzo un po’ mi hanno fatto venire il latte alle ginocchia, per lo meno mi hanno regalato qualche pensiero in più, qualche sentimento in più; mi sono mancati i racconti di famiglia, ondivaghi, magari, ma sempre capaci di chiarirti come stanno le cose tra chi si vuole bene e poi magari non più, mi è mancato insomma, un po’ di partecipazione e di passione. Mi domando allora, se, dopo aver notato come Dicker sia stato bravo a rifilare e limare tutti i suoi difetti, a scansare gli errori più frequenti, ecco, mi domando se non abbia confezionato un passatempo, bello, per carità, persino divertente nonostante il tema, ma un po’ freddo.

Joël Dicker
Il caso Alaska Sanders
La nave di Teseo, 2022
22 euro


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