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“Sequenza per un corpo senz’organi” (per Antonin Artaud). Estratti da “L’inestinguibile lucore dell’ombra” (Samiszdat, Parma, 2009)

Creato il 14 luglio 2015 da Criticaimpura @CriticaImpura

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Di ENZO CAMPI

Sequenza per un corpo senz’organi

(per Antonin Artaud)

Volete una storia

che abbia del volo e della caduta?

L’avete, è la mia!

Un asino che raglia

all’infinito,

un pavone

che esplode

il suo verso lancinante

in eterno,

un coyote denutrito

che ulula

il suo pianto alla luna,

un serpente

strozzato a morte

dalle sue stesse spire.

No!

Non è questa la storia che volevate.

No!

Non è certo una storia rassicurante.

Nel braccio destro

sono mio figlio,

nella caviglia sinistra

sono mio padre

e nel costato

sono io

o quello che gli altri

pensano di poter riconoscere

di me stesso.

No!

Non è questa la strada giusta.

Vedo mille abissi

aprirsi

davanti ai miei piedi,

vedo mille baratri

in cui ascendere

e consegnare

le ultime forze rimaste

a quello stregone purulento

che s’illude

di essere

il signore della tenebra,

quell’infimo sciamano

che mi trova

così buono e gustoso,

buono da mangiare,

crudo,

salato e sanguinolento,

quell’essere

abortito dallo scroto

di una divinità

franta nell’oblio

e che non ha niente di meglio da fare

se non martirizzare quelli che,

come me,

cercano

l’idea di una coscienza superiore.

No!

Non è questa

la storia che sognavate.

No!

Non è certo

una storia da raccontare ai propri figli.

Una volta avevo sei figlie,

ognuna di loro

era legata a me,

fisicamente,

con cerniere di metallo,

poi mi hanno prosciugato,

poi le hanno prosciugate,

poi mi hanno spolpato,

poi le hanno spolpate,

e i chiodi hanno ceduto,

e le mie figlie

si sono staccate dal mio corpo

e mi hanno abbandonato,

sono state divelte

dall’epidermide

del loro unico padre,

e con la scusa

di lenire il mio dolore

si sono precipitati

a forarmi

con gli aghi del loro sdegno.

Volete una storia

che abbia

del fucile e del coltello?

L’avete, è la mia.

Un fucile di granito

che spara

il suo proiettile di marmo

direttamente nella pupilla

e un coltello dentato

che raspa

l’essenza

direttamente dal midollo.

No!

Non è questa

la storia che volevate.

No!

Non è certo una storia rassicurante.

*

Nemmeno

in un turbinio di dervisci

ritrovo l’idea del trance

nel quale estraniarmi

e fuggire,

nemmeno Eliogabalo

può guidarmi per mano

lungo il sentiero

che conduce

in quel limbo

dove finalmente

si può dare un senso

a tutto quello che è stato,

a tutto quello

che infine mi sopravviverà.

Nella materia

che si disgrega

un concerto

di organi putrefatti

come bacata melodia

si leva alto

dalle montagne

ove risuona l’eco

del grande sonno.

Non copulo

che con me stesso,

con la folgore

che sfibra il costato,

con la scossa

che dilacera il senno.

Una lingua di fuoco

come la spada di un samurai,

un fallo rattrappito,

specchio al rovescio

del magico bastone

che ho ritrovato

nelle ceneri

di un incubo divino.

Una passeggiata sui carboni ardenti,

è questo il mio supplizio!

*

Una fiala di morfina

per lenire il dolore,

non chiedo nient’altro che questo.

Si fossilizza il fallo,

si pietrifica il callo

nella vagina fulminata

della vergine del rimpianto,

e sussulta l’arto

nella cancrena

che deride

l’idea di una bara

ove conservare

la dignità del corpo.

Una fiala di morfina

per lenire il dolore,

non chiedo nient’altro che questo.

Si rigonfia il costato,

come pompato, dall’interno,

da un magma di pus incandescente,

dall’esplosione

delle escrescenze

che dirottano

il sangue

verso i testicoli,

come per mortificare

il bianco seme

con la collera rossa

della malattia che cresce,

s’inalbera,

urla…

ma io urlo più forte di lei.

Una fiala di morfina

per lenire il dolore,

non chiedo nient’altro che questo.

*

Ho perso

lo spirito

su un tavolaccio di legno,

ho smarrito

la coscienza

su un filo di rame

che vibrava impazzito

sulla pelle contratta,

ho dilapidato

il mio seme

in una copula notturna

con quell’essere

che mi definisce

il suo schiavo,

ho rosicchiato

un osso

di cane putrefatto

per placare la fame

dopo che m’ebbero rinchiuso

per dodici notti

col solo sollievo

di un’acqua

messa a marcire

in un secchio

ricoperto

di sterco di vacca.

Di giorno,

tra una scossa e l’altra,

dormivo

e non ricordo

nient’altro

che lingue di fuoco

e una mannaia

che mozzava

la mano

con la quale scrivevo,

la mano

con la quale disegnavo.

Di notte, invece,

ero prigioniero

e soffrivo

il debilitarsi del nervo

dopo che mi fu estirpato

un dente,

solo perché

a quell’essere,

travestito da dio,

dava fastidio

il fatto che io potessi

ancora usarlo

per mangiare.

Ma non c’è più niente

per cui valga la pena cibarsi

se non quell’osso

già spolpato

dall’ingordigia

dei vermi.

Non c’è più niente

di cosciente

in questa consapevolezza

di morte al lavoro,

in quest’opera

di frantumazione dell’io.

Non c’è più niente

di umano,

solo bestie conclamate,

solo esseri

che agitano il bastone

che mi hanno sottratto

e con il quale

vorrebbero

deflorare il mio ombelico,

la mia bocca,

io,

che una volta

ero un uomo,

io,

che oggi

sono rinchiuso

in quest’inferno,

nella stanza bianca

dell’inquisizione,

io,

che ho perso

la forza del tuono,

io,

che ho perso

la forza della marea,

io,

che ho perso

la forza del terremoto,

io,

che non riesco più

a distinguere i colori,

io,

io che sputo

su questo trionfo di vuoto,

su quest’accusa tronfia,

su questo dito puntato,

su questo sbraitare di follia,

di presunta demenza,

di raptus incontrollabili,

di spiriti malvagi,

di malie,

di fatture,

di incendi intestini,

di coscienza,

di incoscienza,

io,

io che sputo

su questa gabbia

in cui sono rinchiuso,

io,

io che sputo

su questa forca

dove mi si vuole impiccare,

io,

io che ero,

ero portata del suono,

ero getto di pece,

ero proiettile di carne,

ero geyser d’acquavite,

ero lava ribollente,

io,

io che volevo

solo liberarmi.

*

Io odio e spregio a vile

il muro della coercizione,

una qualsiasi crudeltà

ostentata, perpetrata,

ai limiti dell’incoscienza

contro una coscienza

surriscaldata,

febbricitante,

ansiosa di essere,

di travalicare

i confini

del convenientemente taciuto,

del mai rivelato.

Io odio e spregio a vile

il dio assente,

il diavolo bacato,

la madre vergine,

le figlie mai nate e più volte morte,

la medicina corrotta,

l’alchimia svilita,

il segreto

che non deve essere condiviso,

la ragione destabilizzata,

la dittatura del potere,

la scossa elettrica,

la lobotomia,

la tortura legalizzata,

la coscienza mortificata,

la morte del pensiero,

il fuoco che avvampa d’intorno

e sottrae il respiro,

questo fuoco malvagio

che risparmia il corpo

e consuma l’anima,

perché il corpo è già morto,

perché il corpo è già stato

trattato

incarcerato

depredato

punito

murato

inforcato

colpevolizzato

impiccato

raspato

strangolato

legato

ghigliottinato

incatenato

sezionato,

trasfigurato

forato

cotto

sfibrato

scisso

tappato

svilito

condannato

sciamanizzato

suppliziato

emaciato

suppurato

arso

fucilato

smembrato

chiodato

svenato

imbastardito

detronizzato

immolato

penetrato

ammanettato

martirizzato

criminalizzato

castrato

sodomizzato

frantumato

violato

ingiuriato

prevaricato

processato

deportato

succhiato

sconsacrato

contaminato

defraudato

arrotato

saccheggiato

svuotato

alienato

rinchiuso

fottuto

ingannato

trapassato

affatturato

cancrenizzato

impastato

squarciato

inacidito

appeso

rivoltato

immerdato

mummificato

eplorato

intorpidito

inaridito

martellato

piallato

gonfiato

crocifisso

sepolto

neutralizzato,

perché il corpo

non ha più nulla da dire,

perché questo corpo

sì è già dato,

perché

di questo corpo

non resta che l’anima

e qualche vago ricordo

di quand’era

poco più di un soldato,

un cavaliere

dell’armata di dio,

un condottiero

dell’armata di satana,

di quand’era

poco più di un guerriero

pronto ad immolarsi

nel trionfo della luce,

di quand’era

poco più di un eroe

pronto a consegnarsi

alla tenebra dell’abisso.

Ma

in

realtà

io

volevo

solo

essere

un

uomo

(Estratti tratti da L’inestinguibile lucore dell’ombra, Samiszdat, Parma, 2009)

© Enzo Campi

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Informazioni su Enzo Campi

Nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990. Autore e regista teatrale, dal 1981 al 1991, con le compagnie “Myosotis” e “Metateatro”. Video maker indipendente, ha realizzato svariati cortometraggi e un lungometraggio: “Un Amleto in più”. Scrittore, poeta, saggista. Ha pubblicato: “Donne – (don)o e (ne)mesi” (Genova, 2007, filosofia sociale); “Gesti d’aria e incombenze di luce” (Genova 2008, critica letteraria); “L’inestinguibile lucore dell’ombra” (Parma, 2009, poesia); “Ipotesi Corpo” (Messina, 2010, poemetto); “Dei malnati fiori” (Messina, 2011, poema); “Ligature” (Sondrio, 2013, poema); “Il Verbaio – Dettati per (e)stasi a delinquere” (Milano-Sasso Marconi, 2014, poema); “Phénoménologie” (Bologna, 2015, poemetto). Principali curatele: “Poetarum Silva” (Parma, 2010), “Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa” (Sasso Marconi-Milano, 2013), “Pasolini la diversità consapevole” (Milano, 2015). Ha curato inoltre numerose prefazioni, postfazioni e note critiche in volumi di poesia. Suoi scritti critici e poetici sono reperibili su riviste, su svariate antologie e in rete su siti e blog di scrittura. Cura i blog “Letteratura Necessaria”, “Paraboliche dell’ultimo giorno”, “Scritture ed altre officine”. Ha diretto per Smasher Edizioni la collana di letteratura contemporanea “Ulteriora Mirari” e coordinato le prime due edizioni dell’omonimo Premio Letterario. È direttore artistico del Festival “Bologna in lettere”.


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