Penultimo film di Charles Chaplin, prima produzione da lui girata in Europa, nonché ultima pellicola in cui egli assume un ruolo da protagonista, Un re a New York (1957) è una brillante commedia satirica che vede il noto regista di origine britannica prendersi la sua rivincita sulla società americana, che lo aveva costretto, in pieno maccartismo, ad abbandonare gli Usa con la presunta accusa di attività filocomunista. Per tutta risposta Chaplin scrive, dirige e interpreta questo film in cui rivela con straordinaria lucidità le magagne e i controsensi del mondo capitalistico, dall’invasione della pubblicità a quella della chirurgia plastica, dall’ipocrisia libertaria alla nuova stagione della “caccia alle streghe” lanciata dal senatore McCarthy nei primi anni 50 del secolo scorso. Lo sguardo dell’autore è profondo, sagace, irriverente, capace di affrontare senza problemi una materia ricca e delicata trattandola in modo lucido e al tempo stesso esilarante. Nel complesso la pellicola (ingiustamente misconosciuta e sottovalutata) si presenta integra ancor oggi della sua notevole verve dissacrante, ed anzi è facile che lo spettatore rimanga stupito dalla facilità con cui vengono messi alla berlina i mali che, oggi come ieri, contribuiscono a minare le basi della società contemporanea. Segno degli anni che passano senza che in realtà nulla cambi davvero. Nella sequenza qui proposta assistiamo in particolare ad uno spassoso confronto tra Chaplin (nei panni di un sovrano che si rifugia suo malgrado negli Stati Uniti a causa di una rivoluzione che gli ha sottratto il trono) e suo figlio Michael (che interpreta un pestifero bambino sostenitore della dottrina marxista). Certamente non si tratta del momento più importante del film, ma rimane in ogni caso una significativa dimostrazione del linguaggio, piacevolmente oscillante tra critica e risata, che è alla base dell’intero percorso tematico sviluppato nell’opera.