Magazine America

Serata alla "Perla Negra" II

Da Darioanelli @dalmessico
Mentre aspettavamo l'imprenditore ed io chiacchieravamo del più e del meno. Ordinammo una birra. Al tavolo vicino intanto ridevano con educazione.
Pensai al posticino di tacos dove ero solito regalarmi una cena alla settimana. Si tratta di una baracca di lamiera verniciata di bianco, sul segundo anillo.
Dentro i tavoli e le sedie sono di plastica bianca, omaggio di Coca Cola.
Appoggiata su di una sedia c'è una tanica d'acqua e un pezzo di sapone a disposizione per chi vuole lavarsi le mani.
Non c'è bagno.
La cameriera è una donna di mezza età, corpulenta, che si strizza dentro jeans e magliette troppo strette cosicché la ciccia in eccesso deborda ai  lati in rotolini simmetrici. Ti serve in piatti coperti da un sacchetto di plastica trasparente che viene sostituito ogni volta, evitando la gravosa spesa di una lavastoviglie.
Alla fine ti da il resto pescando banconote e monete da un grande barattolo di maionese vuoto.
I taqueros lavorano in maglietta, maneggiando grossi coltelli e mannaie; le loro mani si muovono esperte fra i pezzi di carne cotte al vapore. Scaldano tortillas e le farciscono. Ad un lato del loro bancone da lavoro c'è uno spiedo verticale che assomiglia un po' a quello dei Kebab, solo che qui cuociono carne detta al pastor. Deliziosa.
I clienti del posticino, sono le ridenti famiglie delle colonie circostanti; matrone baffute che superano il quintale, uomini con il cappello da cowboy che siedono ben dritti sulla sedie come galli da combattimento, fragili vecchietti simili a passeri, giovani madri quattordicenni con il loro figlioletto lattante in grembo e giovincelli che assomigliano ad Eminem che, purtroppo, hanno la tendenza a mettersi nei guai dopo una certa ora. 
Ad ogni modo i tacos, là, sono proprio buoni; ci si sente dentro tutto il Messico.
Smisi di pensare a queste cose quando tornò l'ereditiera con sua cugina spagnola.
Noi uomini, ci alzammo, ci presentammo e tornammo a sederci.
La cugina era una ragazza giovane con i capelli neri pettinati all'indietro come una lontra. Aveva grandi occhi scuri che osservavano le cose con interesse. Chiese: “Chi è il maestro di italiano?” Alzai la mano. “Sono stata in Italia una volta”, mi informò.
Le domandai cosa studiasse. “No” rispose “Io sono un'atleta professionista, la mia specialità sono i quattrocento metri ad ostacoli.”
Sbirciai il suo braccio nudo. Non era voluminoso ma molto definito e aveva l'aria di essere duro come il marmo.
“Stai preparandoti per qualche gara in particolare?”
“Sì, per le prossime olimpiadi.”
“Ah!” Chissà perché rimaniamo colpiti quando ci imbattiamo in qualcuno che coltiva grandi ambizioni.
“Piacere, Dario Anelli, sto scrivendo il libro che metterà in ombra l'intera opera di Umberto Eco.” Non mi è mai capitato di presentarmi così, lo farei se davvero avessi scritto tale libro.
Ma non l'ho mai scritto, quindi deduco ho poca stima di me stesso, oppure sono semplicemente realista e la realtà è che sono una persona ordinaria.
Quello che è certo è che per vincere le olimpiadi e quindi essere campioni, come prima cosa bisogna iscriversi ad un club di atletica. Cioè scrivere il propio nome e cognome su di un foglio. Una persona che vince le olimpiadi era una persona ordinaria.
“Quante ore ti alleni al giorno?” Domandai interrompendo la conversazione in corso.
“Sei, otto ore, dipende.” Una persona ordinaria quindi che si allena sei, otto ore.
Arrivò la bistecca. Era di dimensioni colossali, una specie di fiorentina. Erano anni che non vedevo niente del genere su un piatto destinato a me. Per tagliarla mi diedero una specie di coltello da marines, di quelli che usava Rambo.
L'alteta aveva ordinato Marlin.
Ero seduto a tavola con un capitano di industria, un'ereditiera e un'atleta olimpica. Adesso si stava parlando di viaggi.
Sentivo che dentro di me qualcosa era cambiato. C'era stata una piccola scossa di terremoto fra le sinapsi celebrali.
L'idea irrazionale che governava la mia vita fino a quel momento era che i campioni, gli scienziati che cambiano il mondo e i grandi imprenditori, abbandonassero in giovane età il mondo per rincorrere la loro ambizione e, una volta giunti al  traguardo, non tornassero più al mondo comune bensì finissero sui giornali e in televisione e, da lì, sì aprissero per loro le porte dell'olimpo degli eletti.
Nella mia concezione del mondo non era possibile che un atleta olimpico cenasse con me.
Per i miei commensali sembrava del tutto normale che io facessi domande e intervenissi esprimendo il mio punto di vista. Ero stato il loro maestro di italiano; li avevo guidati attraverso il presente, il passato prossimo, il futuro semplice e un po' di congiuntivo.
Erano questi pensieri fluidi che sgorgavano così, liberi tra un boccone di bistecca e l'altro, ci sarebbe voluto del tempo per capirli meglio.
Poi la cena finì ed io non avevo i soldi per pagare ciò che avevo mangiato. Se si fosse fatto alla romana, pensavo, avrei vuotato il portafoglio chiedendo con tutta tranquillità di passare ad un bancomat per saldare quello che rimaneva; speravo però che le cose andassero in maniera diversa e così fu.
“Offro io.” Disse il capitano d'industria. Le ragazze fecero una faccia di rimprovero, io invece ringraziai con un ampio sorriso. Il cameriere prese la carta di credito del capitano d'industria e scomparve.
Alla fine venne il maitre che era un uomo basso e tarchiato, con le guance cadenti come un vecchio maggiordomo inglese. Aveva un'aria stanca e solenne.
Disse:
“Nella vita cerchiamo sempre di raggiungere il successo ed è per noi un grande successo avervi avuto qui questa notte.”
“Ma grazie.”
Camminai verso casa nella notte stellata pensando: “Ehi, sono in America!”

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :