Magazine Poesie

Sergej Rachmaninov (1873-1943)

Da Paolo Statuti

rachmaninov

Negli ultimi tempi ascolto spesso la musica di Rachmaninov. La considero soprattutto un’esigenza spirituale, un bisogno di messaggi e di quadri musicali particolarmente consoni a questo periodo della mia vita. Nella sua musica trovo gioia e conforto, trovo l’amicizia sincera e incondizionata delle sue stupende note. Come un vero amico, lo chiamerò per nome, dandogli del Tu. Non hai avuto una vita facile, Sergej, la rivoluzione del 1917 segnò la fine della Tua Russia, la Russia della Tua anima candida e sensibile. Improvvisamente ti trovasti senza mezzi di sostentamento e in un gelida notte invernale, il 22 dicembre di quello stesso anno, lasciasti San Pietroburgo con Tua moglie e le due figlie su una slitta scoperta, diretto a Helsinki, prima si stabilirti negli Stati Uniti. Quante note amare e strazianti devono averti affollato la mente e il cuore quella notte, e che sono rimaste per sempre in Te e nelle Tue future composizioni. E negli Stati Uniti sei morto, esule tuo malgrado, Tu che come pochi altri Tuoi connazionali avevi un tale bisogno dell’humus russo, della natura russa, dell’anima russa!

Ti hanno definito “il più russo dei compositori”, benché avessi vissuto 26 anni lontano dalla Tua patria. Scherzando sostenevi di essere “per l’85 per cento un musicista e solo per il 15 per cento un uomo”, ma di Te si diceva che eri un uomo dal cuore d’oro.

La Tua anima pura e luminosa ruota in una dimensione spirituale e contemplativa profondamente nostalgica e malinconica così tipica della Russia, quella Russia di cui io personalmente mi nutro da tanti anni, attraverso i suoi grandi poeti, musicisti e pittori. Oggi la Tua musica mi conforta e m’ispira. Risveglia in me ricordi sopiti, immagini cancellate dal tempo, tutto ciò che di più bello nella vita ho provato. La Tua musica mi ricorda la “Benedizione di Dio nella solitudine”, che Liszt elaborò musicalmente in modo stupendo dall’adagio sostenuto della sonata “Hammerklavier” di Beethoven, e poeticamente ispirandosi alla omonima poesia di Alphonse de Lamartine. Ecco il preambolo nella mia traduzione:

Alphonse de Lamartine

Benedizione di Dio nella solitudine

Donde mi viene, o Dio, questa pace che m’inonda?

Donde viene questa fede che nel mio cuore abbonda?

A me che sono sempre così incerto e turbato,

E sui flutti del dubbio da ogni vento agitato,

Cercavo il bene, il vero, nei sogni dei sapienti,

E la pace nei cuori immersi nei tormenti.

Sulla mia fronte appena qualche giorno è trascorso,

E a me sembra che un secolo, che un mondo sia scorso;

E che separato da essi da un abisso immenso,

Un uomo nuovo in me sia nato, questo ora penso.

(Versione di Paolo Statuti)

Girovagando in internet ho avuto la fortuna di trovare questo bel saggio poetico su Sergej Rachmaninov scritto dal letterato polacco Andrzej Osiński, che mi ha gentilmente autorizzato a tradurlo e a pubblicarlo sul mio blog, ciò che ho fatto con grande piacere. Eccolo:

Un pellegrino smarrito dall’anima immacolata

“Siamo nati per tendere al cielo” (Balzac)

Il talento (…) costa caro; si acquisisce soltanto con sacrifici di ogni tipo, attraverso la sensibilità più delicata, che ci rende infelici fuori e dentro di noi, esponendoci alle persecuzioni” (Bernardin de Saint-Pierre)

I.

L’esigente e severo critico moscovita Julij Engel, espresse così le sue impressioni dopo avere ascoltato la prima esecuzione della II Sinfonia in mi minore di Sergej Rachmaninov (1908): “Essa non svela altri mondi e non fa rivelazioni straordinarie, ma è così fresca, così bella”, mentre il burbero e altero Gorkij, commosso dalla scorrevolezza e dalla nobiltà del melodioso pensiero musicale, esclamò con grande entusiasmo: “In che modo stupendo egli sa ascoltare il silenzio. Che meraviglia!”

Rachmaninov… Natura contemplativa e delicata; amorevole cherubino smarrito in una terra solitaria rovente di dolore umano; mite eroe che percorreva un costante sentiero tra gli indifesi e gli oppressi, sulla cui triste sorte si chinava pazientemente, “cercando di farlo in segreto” (A.V. Ossovskij), e abbracciando “il mondo della miseria umana con uno sguardo acuto, saggio, compassionevole e attento” (Albert Svann).

Dubitando dei doni del Signore (“Bisogna dire che adesso si compongono cose stupende, ma un tempo se ne componevano di più stupende), piegato e impietrito dal chiassoso hic et nunc (“Il mio tempo è il tempo futuro, un futuro così lontano, al quale non arriverò più! – si rammaricava); l’introverso che trascorreva ore silenziose, assai malvolentieri metteva a nudo il suo pensiero, e non soggiaceva all’iperbole estetica: “Ogni compositore ha le proprie idee -ribadiva con ostinazione – Non penso che si debbano decifrare. Non credo che un artista sia tenuto a scoprire le sue carte. Ogni ascoltatore mette nella musica proprio ciò che lo ricolma”.

   Freddo perfezionista fino all’eccesso, impenetrabile, intransigente e rigoroso, elevato umanista e indefesso solitario, che scrive scetticamente “annotazioni per la mia nuova sinfonia che, stando alle prime battute, non susciterà alcun interesse”, ma anche titano dell’azione eroica, che disprezza la malriuscita convenzionalità; tormentato dall’insoddisfazione per i frutti della sua penna – l’autore della “Rapsodia su un tema di Paganini” raggiunse la Bellezza, convinto che essa si celi nell’essenza della ricerca; non nel possesso, ma nel sognare, non nella conquista, ma nella creazione, non nel compiacimento, ma nel prometeico errare nei segreti luoghi impervi della crudele esistenza.

“Ciò che noi consideravamo un risultato eccezionale, per lui era soltanto uno dei gradini verso la perfezione” – confessava rassegnato l’amico di tanti anni Nikolàj Kàrlovič Metner, e il modesto cantore dello “Zio Vanja” – sorpreso dall’arte virtuosistica di quel giovane poco più che ventenne – gli si rivolse con imbarazzo: “L’ho guardata per tutta la sera e penso che lei sia destinato a diventare un grande uomo. Lei ha un volto così sorprendente e insolito”.

 

     II.

L’araldo della “Isola dei morti” si teneva volentieri lontano dagli intrighi di società e dalle dispute di rilievo: “Non sono un politico – ammetteva laconico – Semplicemente tengo per me le mie opinioni”. Avvolto nel manto delle melodie che turbavano la sua timorosa anima con lo scroscio della pioggia notturna e affascinato dal canto della steppa che precede la sera, ironico spiritualmente indifeso e improvvisatore dalla limpida psiche, sprofondava nelle fantasie che spiccavano il volo dal suo studio immerso nel buio.

Idealista romantico che medita sui destini umani e moderato epico che risolleva gli afflitti, Rachmaninov appare come “l’ultimo dei Moicani” del lirismo melodico; un eroe solo, dignitoso, appassionato, limpidamente onesto, che desta nel prossimo sentimenti di giustizia, e al tempo stesso è consapevole del proprio anacronismo (“Mi sento come uno spettro che vaga in un mondo estraneo” – confessava commosso prima della morte) e dell’arcaismo che si nutre dei bisogni del cuore. “L’uomo non può sprizzare salute e allegria per tutta la vita, subirà sempre delle perdite e non potrà evitare la morte… Bisogna soltanto compiere il proprio dovere secondo le proprie forze, nient’altro”.

“Quando compongo, mi aiuta il ricordo di un libro letto di recente, di una poesia, di un bel quadro. A volte nella immaginazione appare un determinato tema, che poi cerco di trasformare in suoni, senza tuttavia tradire le fonti della mia ispirazione… Ma se sono vuoto interiormente, non aiuta nessuno stimolo esterno” – diceva. L’andamento da ballata e la narrazione poetica d’impeccabile fattura, la linearità del suono e la irresistibile cantilena dal pathos elegiaco, immerso in una nota di intima tragicità, emergono direttamente dai più segreti recessi di questa immacolata anima russa, cresciuta tra i boschi della Rus’ Azzurra, nella ventosa e annuvolata terra di Novgorod.

La casa di famiglia ad Oneg, avvolta nella piota, circondata da un tappeto di amento e assorta nel silenzio dei laghi, inverdita dall’acquerugiola del tardo autunno e coperta da una striscia di nebbia argentea, sembrava condurre un’esistenza a se stante e segreta. Il vecchio pianoforte di legno rosso suonato dal padre allegrone, dissipatore e utopista, introduceva il piccolo Sergej, ammutolito dallo stupore, in un incantevole universo di toni lucenti, filtranti attraverso i vetri opachi con l’umido aroma delle aiole, all’inizio di aprile, sonnecchianti nel putrido cigolio della gru del pozzo ingiallita, tintinnanti negli arbusti di cratego carminio. Il cigolio di un carretto, il querulo lamento della quaglia punta dai secchi steli delle stoppie d’orzo, il cicalare delle lavandaie che sciacquavano i panni sulla riva del sussurrante ruscello, il volo delle oche sotto le nuvole – tutto affascinava il sensibile bambino, che si stringeva con affetto all’amata nonna Butakova.

“Le mie composizioni nascono lentamente – affermava – Ad esempio quando sono in campagna mi capita di fare una lunga passeggiata. I miei occhi registrano i giochi di luce abbagliante sulle giovani foglie bagnate di pioggia, l’orecchio coglie i mormorii del bosco, il suono delle gocce che cadono. Poi guardo il cielo che al tramonto scolorisce all’orizzonte, e allora sento tutte le voci contemporaneamente”. L’assonnata città tenuta insieme dai fermagli dello scuro torrente e rischiarata dalle cupole dorate delle vecchie chiese, i vicoli silenziosi coi granai coperti di erba e il cigolio delle zattere spinte dalla brezza vergo il Ladoga assorto nell’immensità, costituiscono il raffinato tableau del cantore delle “Acque di primavera”, il quale scacciato dalla impetuosa corrente della madrepatria rossa abbrutita nello strepito, perse le fonti inesauribili e sconfinate dell’ispirazione. “Dopo la partenza dalla Russia, ho perso la voglia di creare – si disperava – Persa la patria, ho smarrito me stesso. Un esule che ha perduto le fonti della sua musica, la tradizione e la terra natia, non ha nessuna voglia di creare. Non gli resta altro che il morto silenzio dei tristi ricordi”.

   Tacquero le campane delle chiese che cantarellavano sopra il muscoso boschetto di frassini, svanirono le ragnatele tessute nel silenzio del crepuscolo azzurro, caddero le foglie chiamate dal fischio del vaporetto, cessò il volo dei cigni negli aspri inebrianti vapori della menta. L’immensa Rus’ delimitata dalla linea color lilla e sanguigna dell’orizzonte, la danza delle allodole nelle pallide file dei cereali invernali e dei salici, le steppe coperte da un manto di cardi profumati e di fiori melliferi nel mormorio delle cicale, i casolari e gli attrezzi bagnati di brina, che si gonfiano nel disgelo di marzo – ecco i frammenti di scene che scorrono nell’eterno specchio del Creatore.

Come posso comporre se non c’è la melodia? – confessò in una lettera a Nikolaj Metner – Se già da tanto tempo non ho sentito il fruscio della segala, il sussurro delle betulle?”. La vena dell’esule afflitto, costretto a svolgere il ruolo di acrobata del pianoforte, era congelata da un infinito sconforto.

     III.

   Riteneva impossibile conciliare creazione ed esecuzione. “Se suono, non posso creare, se compongo. non voglio suonare… – confessava rassegnato – Forse perché la musica che ho voglia di comporre, ora è inadatta”. L’instancabile concertista, il raffinato conoscitore di una tavolozza spirituale di colori, accentuata da una virile energia e da una così estesa pulsazione della frase rapsodica, umilmente si affidò alle sue mani, accettando il giogo di una non chiara carriera, ma aspirando nel corso della quale a una maestria apollinea, instancabilmente rinnovata in un quarto di secolo di strabilianti successi.

Egli non guarda i suoi ascoltatori, ma ciò non significa che li ignori. Semplicemente richiede loro di ascoltare la musica che lui esegue. Dal suo viso non trapela nulla. Siede immobile assorto nel suo lavoro, completamente assoggettato ad esso, dedicandogli tutte le sue forze e capacità – si stupiva la critica americana – Nemmeno Woodrow Wilson sarebbe in grado di assumere una tale maschera di tranquillità accademica!”, e Julij Engel concludeva: “In tali condizioni di esecuzione, la musica stessa sembra essere soltanto un contorno al suo genio pianistico”. Egli invece era oltremodo scettico. “Devo ammettere che più suono, più vedo le mie lacune nell’esecuzione – confidava con timore all’amico Vladimir Vil’šau – Davvero non imparerò mai a suonare bene, e se ciò accadrà, sarà solo in punto di morte”.

   Sulla brillante eredità della storia si chinava con la cura di un cesellatore medioevale, che sfaccetta in modo perfetto una pietra indocile. Allo stesso modo trattava la sua personale letteratura, rifuggendo da ogni compromesso di mediocrità. “Mai nella vita sono stato tranquillo e soddisfatto – confidava a Vil’šau – Quando mi occupavo di composizione – mi tormentava il pensiero di comporre male. Adesso mi tormenta il dubbio che l’esecuzione lasci a desiderare. Intimamente sono convinto di poter fare meglio sia l’una che l’altra cosa. E’ questo che mi tiene in vita”.

   Il famoso imprenditore e mecenate russo Savva Mamontov, che nel 1985 aveva fondato l’Opera Privata Russa, offrì a Rachmaninov il posto di assistente direttore per la stagione 1897-8. Il compositore accettò immediatamente e in tal modo fece il suo ingresso nell’appassionato, turbolento e inquieto mondo dei direttori d’orchestra. “Quando l’orchestra eseguiva una dolce e bella melodia, i gesti di Rachmaninov si facevano delicati e cauti, come se sollevasse sopra gli orchestrali qualcosa di valore inestimabile, incredibilmente pregiato e fragile – ricordava a distanza di anni l’illustre critico e giornalista Vlas Doroševič – Poteva essere un bambino o un vaso di cristallo di squisita fattura, o anche una coppa colma di un elisir preziosissimo”.

   Ma per l’autosufficienza materiale e la potenzialità dell’espressione superficiale, bisognava pagare un tributo crudele – il tempo necessario per il proprio canto: il sussurro delle pasture boschive, che si fa strada attraverso il trillante cinguettio dello zufolo del pastore, il mesto lamento dei prati gelati dal freddo soffio di ottobre, il mare di tetti contadini e di orti spruzzati dall’alba, un delicato canto religioso – cogliere tutto questo “è una cosa molto difficile. Non basta assorbirlo semplicemente in se stessi”; bisogna accoglierlo in silenzio e in una armonia smisurata, unificando la coscienza con l’inesprimibile mistero del Dio misericordioso.

   IV.

Una volta un religioso disse della LIturgia di San Crisostomo di Rachmaninov:

“Essa è di una bellezza incomparabile, è perfino troppo bella, ma ascoltandola è impossibile pregare”. “Non è musica da chiesa” – osservò quel prete con una certa meraviglia; non c’è modo di separarla “dal magico incanto del compositore-esecutore” (come notava la critica britannica).

L’autore del “Preludio in do diesis minore” entrò in possesso dell’insolito dono di costruire un olimpico edificio di suoni attorno a un’esile e timida battuta, sottoposta a infinite variazioni e divagazioni. I “Tre canti popolari russi” – “Poteva scriverli soltanto chi ama appassionatamente la sua patria, soltanto chi ha un’anima profondamente russa” – disse a suo tempo Vladimir Vil’šau, amico devoto di Rachmaninov.

Questa musica è tesa e agitata, sembra come se in un attimo spazzerà via tutti gli ostacoli che troverà sulla sua strada” – esclamò Nikolaj Karlovič Metner, affascinato dal II Concerto in do minore op. 18. Le raffinate “byline” per pianoforte svolgono la loro muta azione nel centro della terra russa, pulsando da dietro una leggera tenda di mussola con un brontolio di rabbia e di amarezza umana. Chiamando a sé i canti mesti delle campane dei monasteri, portati dal turbine delle lamentazioni di novembre e che si spengono nella trasparenza dei monumentali affreschi di Rubljov, l’autore della “Primavera” esorta a un profondo e consapevole umanitarismo, e a risvegliare i puri pensieri celati nei chiostri dello spirito mortificato.

In questa arte, il cui unico criterio è la forza con la quale essa agisce sull’uditorio, purificando le coscienze e incitando a nobili azioni, sostenendole nella lotta contro la sporcizia della vita e contro la vitalità del caos satanico; in questa musica notturna scintillante negli acquerelli degli inni in onore della natura perduta, nonché nei cupi studi di un eremita smarrito nella barbarie del cosmo, non c’è felicità, non c’è gioia e non c’è acquietamento. “Un dolore passeggero maledice e incolpa il cielo; un grande dolore non maledice e non incolpa, ma ascolta” – disse una volta Alfred de Musset. Rachmaninov, uomo statuario, retto e fiero, ma emotivamente disarmato, con la solitudine del pellegrino porta la sua croce di Cristo, percorrendo i luoghi impervi dell’esistenza contro l’imbestialimento della storia contemporanea, e a dispetto del dispregio per i suoi malinconici rudimenti.

(C) Andrzej Osiński

(C) Paolo Statuti



Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Magazines