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Sergio Garrone: l’importante era sparare, sparare, sparare…..e morire il più possibile ammazzati

Creato il 06 marzo 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Sergio Garrone, regista, ma nello spettacolo lavora anche il fratello Riccardo Garrone, attore caratterista tra i più famosi e prolifici del cinema italiano. Intanto una curiosità: come nasce nel cinema italiano la coppia Sergio e Riccardo Garrone? Dice Sergio Garrone: “Io e Riccardo, già da piccoli, diciamo intorno ai cinque-sei anni, cantavamo già come voci bianche al teatro dell’Opera di Roma. Come è capitato tutto questo? Merito del ristorante che mia nonna aveva aperto appunto nei pressi del teatro dell’Opera che permetteva a tutti gli operatori del teatro, compresi gli attori, i musicisti, i cantanti di pranzare e cenare anche a prezzi molto popolari e comodi. Tutto questo con il tempo era diventato familiare, si faceva notte fonda a parlare di spettacoli, di progetti, di musica, di interpretazioni. Io e Riccardo poi, come ti ho detto, avevamo già da piccoli queste voci molto impostate, da baritoni insomma. E nel ristorante di nonna poi cominciarono a venire anche le altre compagnie che si esibivano nei tanti teatri che insistevano attorno. Nasce così insomma il nostro amore per lo spettacolo, ascoltando il discorso dei grandi e percependo fino in fondo soprattutto la loro passione per l’arte dello spettacolo…”.

Come non ricordare, in questo contesto dedicato al fratello Sergio, anche Riccardo, le piccole grandi maschere caratteriali che l’attore ha creato, il lustro e la statura che ha fornito ai film della migliore commedia italiana, lo ricordiamo proprio con affetto, ad esempio e certamente per sommi capi, poliziotto della municipale in Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo, 1956, Mauro Bolognini, poi fusto romanesco in Belle ma povere, 1957, Dino Risi, tenentino di fanteria nel Caporale di giornata, 1959, Carlo Ludovico Bragaglia, il milanese boss della mala in Audace colpo dei soliti ignoti, 1959, Nanni Loy, pizzardone graduato ne Il vigile, 1960, Luigi Zampa e via ad arrivare al viscido geometra Luciano Calboni degli ultimi Fantozzi subisce ancora, 1984, di Neri Parenti e all’avvocato Covelli, borghese snob di  Vacanze di Natale, 1983, Carlo Vanzina.

Il regista Sergio Garrone invece, ancora oggi, è uno dei più convinti assertori del genere western italiano, tanto che ci confessa appassionato che l’inquadratura principe che ha sempre in mente è quella del cow-boy a cavallo. Infatti appena ha deciso di firmare il cinema in prima persona, quindi in pieni anni sessanta, lui che veniva da un grande, rigoroso e poliedrico lavoro di assistente alla regia  (Luigi Zampa, Camillo Mastrocinque, Primo Zeglio tra i tanti), non ha mai esitato un attimo sul genere da farsi. Un preciso ragionamento anche sicuramente produttivo, visto che poi il genere western sarà, nel periodo, proprio uno dei più ricchi del momento. Poi la grande passione per il genere lo ha reso sempre molto animoso, sia nella sua qualità di sceneggiatore, sia nella sua qualità di produttore, sia infine nelle sue qualità di regista.

Dice Sergio Garrone: “Semplicemente ho sempre fatto il cinema con grande serietà. Era il mio lavoro, con il cinema mandavo avanti la mia famiglia. E solo con la serietà, per me almeno, il lavoro poteva restare continuo”. L’esordio deciso nel cinema per Sergio Garrone si chiama Deguejo e Sergio Garrone ne è l’anima, il pio condottiero vien voglia da aggiungere, perché tali erano le produzioni di questi film nel periodo deputato, cioè dei veri e propri combattimenti esercitati contro la massiccia concorrenza di film simili e proprio sul terreno del mercato, che doveva essere anche il più possibile internazionale. E Garrone in questo senso ci sapeva davvero fare. Di  Deguejo Sergio Garrone ne era lo sceneggiatore ed il produttore, mente la regia veniva affidata al buon Giuseppe Vari, che firmava il film come  Joseph Warren.

Dice Sergio Garrone: “…si perché nel periodo era importantissimo il nome esterofilo, io stesso diventai subito  Willy S. Reagan, perché tali dovevamo apparire, cioè americani, proprio per le necessarie ragioni di mercato. Era impensabile per l’industria dl cinema italiano che nomi come Sergio, Giuseppe, Giovanni, Antonio o Nicola, cioè i nostri, potevano firmare o interpretare pellicole western in quegli anni. E noi tutti fummo, in questo senso, tranquillamente ribattezzati…”. Sergio Garrone è visto ancora oggi come l’eroe dei western che piacevano moltissimo a quella generazione di spettatori italiani, quelli che oggi si aggirano intorno ai cinquantacinque – sessanta anni di età, proprio perché nei suoi western l’imperativo era davvero sparare, sparare, sparare, spargere, tanto sangue e lasciare tanti morti per terra. Tanto che qualche bounty-killer, pur sparando un solo colpo di pistola, proprio netto alla mano, poteva lasciare a terra anche cinque o sei morti all’istante. Potere del cinema più facile (e più bello). Se poi facevi notare questo a qualche addetto ai lavori loro, e tra questi anche Sergio Garrone, erano davvero pronti e spiritosi a risponderti: “ma è il cinema, ragazzo…”.

Il cinema è semplicemente azione dice Sergio Garrone e rivela che la prima inquadratura che lo ha mandato letteralmente in estasi sin da ragazzo è quella del treno che entra in stazione, si insomma Lumiere. Conferma Sergio Garrone: “Lumiere esattamente, e Lumiere è appunto azione…”. I suoi western, sicuramente dignitosi sul piano dell’impegno, però non raggiungevano mai estremi margini di valenza produttiva e spettacolare  come quelli che potevano raggiungere, in verità, i western firmati Sergio LeoneSergio Corbucci, Sergio Sollima, Tonino Valerii,Duccio Tessari, Giuseppe Colizzi, ma si imprimevano certamente in quella linea di correttezza che li facevano simili, più o meno, ai western di Alberto De Martino, Romolo Guerrieri, Enzo G. Castellari, Sergio Martino, Giuliano Carnimeo. Restavano insomma nella ordinaria produzione, quella produzione certamente mai banalissima ma sicuramente dai risolti ripetitivi.  Ma questo risultato ordinario era già assolutamente preventivato in sede di partenza, già nettamente assorbito. Garrone difficilmente riusciva a mettere insieme un budget sufficiente.  E questa latitanza di denaro certamente testimonia quella quantità di western certamente non proprio risolti sul piano produttivo, ma in ogni caso creatività ed un certo rigore di spettacolo venivano sempre e comunque garantiti.  Va da sé, ora, che è doveroso elencare, proprio uno dietro l’altro, i titoli western che Sergio Garrone ha diretto tra il 1968 ed il 1971: Se vuoi vivere… spara!, Tre croci per non morire, Una lunga fila di croci,  Django il bastardo, Uccidi Django… uccidi per primo. Sempre nel 1971 Sergio Garrone girerà altri due western ma in una condizione di co-regia un poco bizzarra (ma c’è da dire che in quegli anni, ed in questo tipo di film soprattutto, capitava sovente questa promiscuità di autori): così il film  Quel maledetto giorno della resa dei conti è stato iniziato dal regista Luigi Mangini ma terminato da Garrone, mentre Bastardo, vamos a matar  ha condiviso la situazione inversa, iniziato da Garrone viene terminato da Mangini. Girava a mille anche in questa maniera il grande e medio cinema di genere. Altro esempio a sostegno: Danza macabra, girato nel 1964, viene iniziato da Sergio Corbucci ma terminato da Antonio Margheriti, così come Ursus il terrore dei Kirghisi, girato sempre nel 1964, è iniziato da Antonio Margheriti ma terminato da  Ruggero Deodato.  E ce ne sarebbero a iosa di lavorazioni condotte in questa maniera nell’universo delle produzioni cinematografiche degli anni sessanta. Il percorso cinematografico di Sergio Garrone continua, negli anni settanta, sempre a sostegno del più puro cinema di genere: venuta meno la forza trainante del genere western si impone adesso nella industria dello spettacolo cinematografico italiano prima la dimensione bellica, dove Sergio Garrone fornirà, secondo noi una formidabile prova (nonostante la sempre storica ristrettezza economica che gli ha accompagnato la carriera) con  La colomba non deve volare, 1972, continuando subito dopo con la dimensione thriller-horror, apripista in questo senso certamente i grandi successi di Dario Argento, L’uccello dalle piume di cristallo, 1970, Il gatto a nove code, 1971, Quattro mosche di velluto grigio, 1972. Sergio Garrone in questa logica,  firma uno dietro l’altro, due titoli simboli, La mano che nutre la morte e Le amanti del mostro, girati entrambi a stretto giro di posta nel 1974, tanto da garantire a Garrone, da parte della critica più professionale, quasi una patente di specializzazione nei film risolti, anche bene ed in una estrema fretta produttiva, nello stesso ambiente e con lo stesso casting, e venire finanche riconosciuto e sottolineato, in qualche maniera, come una sorta di profeta italiano del genere exploition. Una caratteristica interessante dei due thriller-horror di Garrone è certamente la presenza nel cast di un attore come Klaus Kinsky, da molti ritenuto un attore difficilissimo.  Dice Sergio Garrone: “Lo so, Kinsky continua ad avere una fama pessima. Io posso dirti tranquillamente che non ho mai capito perché un attore come Kinsky sia avvicinato quasi al demonio. A me, ad esempio, alla fine del primo film fatto insieme, mi chiamava papà. Klaus Kinsky capiva molto di tecnica cinematografica, di arte della recitazione, sapeva insomma dove andava posizionata la macchina da presa e sapeva come un attore doveva guardare in macchina, ecco  detestava semplicemente le persone che non sapevano fare il loro mestiere. Dirò di più: Kinsky detestava assolutamente quelle persone che oltre alla loro ignoranza nella professione assumevano anche una grande presunzione. Evidentemente avrà incontrato tanti registi e tanti colleghi attori di questo stampo

Il proseguimento narrativo della carriera di Sergio Garrone, a questo punto, rimane sempre nella condizione di “ricerca di conferme” dal punto di vista dei soggetti da destinare sul mercato. E queste intuizioni non tarderanno certamente ad arrivare, vista la dimensione molto nutrita dei generi, dei relativi sottogeneri e dei generi subordinati, in voga in maniera molto attiva nel periodo dei settanta nel cinema italiano. Per Sergio Garrone saranno illuminanti due film, Il portiere di notte,  girato nel 1974 da  Liliana Cavani  e Salon Kitty,  girato nel 1976 da Tinto Brass. Con queste premesse Sergio Garrone girerà due titoli che saranno emblematici anche per il clima sociale, piuttosto instabile, che stava prendendo possesso della realtà storica italiana, e che noi pensiamo, almeno nelle premesse in qualche modo, lo abbia anche ispirato, Lager SSadis Kastrat Kommandantur, 1976 e SS Lager 5 – L’inferno delle donne, 1977.

Dice Sergio Garrone:  “Si nel 1976, che erano anni anche davvero particolari, molto caratterizzati e dominati dalla protesta e dalla rabbia popolare che si esprimeva attraverso le lotte del mondo operaio e di quello studentesco. Si io ho girato quei film in questi climi particolari. Ed io li ho girati anche con una mia sensibilità storica, facendo sempre del mio meglio nel senso dello spettacolo cinematografico, trattando la violenza certamente con un certo rigore, anche estremo, ma mai semplicemente raccapricciante. Erano questi film, definiti un po’ ingenuamente penso, porno-nazi, voluti da un produttore, Salvatore Alabiso, molto famoso all’estero, in America in particolare, e devo dire che quei film io li ho girati come volevo, non certo secondo l’ottica del produttore che li voleva un po’ diversi. Ma alla fine la produzione è intervenuta, poteva farlo e lo ha fatto, inserendo scene decisamente porno girate altrove. Ma i film girati da me avevano una fattura diversa, e restano diversi…”. Oggi, come sembra, Sergio Garrone tende un po’ a restringere i livelli di estremismo di quei film, anche nel senso delle scene porno inserite in un secondo montaggio non gradito dal regista, invece noi, ricordo, li avevamo amati questi film, nel periodo, proprio per il loro deciso eccesso. Segno dei tempi che sono decisamente mutati, in effetti, e nell’arco di una sola generazione, velocemente, per virare, come è accaduto, soprattutto nell’ottica del buonismo più ipocrita e demagogico. Forse possiamo dire: tanto valeva restare nel raccapriccio. Onore al merito.

Giovanni Berardi    


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