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Sergio Martino: il sacro furore del cinema di genere

Creato il 08 marzo 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Sergio Martino e Giovanni Berardi

Se il cinema italiano è stato una florida industria del cinema lo dobbiamo soprattutto ai film di genere della nostra produzione maggiore, quella degli anni sessanta e settanta. Con questa estrema conferma si è aperta l’intervista con il regista Sergio Martino, uno dei registi simbolo del cinema di genere italiano. Insieme ad un’altra nostra concreta convinzione: quella che i tempi sono davvero maturi per scrivere la storia del nostro cinema  anche attraverso il cosiddetto cinema di serie B  (perchè è in questo ambito che veniva circoscritto il cinema di genere in Italia). Il regista Quentin Tarantino d’altronde non fa che ricordarcelo in ogni occasione questo grosso abbaglio critico, lui che ha più volte spiegato che senza l’analisi attenta e lo studio concreto delle filmografie maltrattate di Mario Bava, di Lucio Fulci, di Sergio Corbucci, di Fernando Di Leo, di Duccio Tessari, di Antonio Margheriti, di Piero Vivarelli, di Umberto Lenzi, di Alberto De Martino, di Aldo Lado, di Ruggero Deodato, di Sergio Martino, non ci sarebbe stato il capolavoro, palma d’oro al Festival di Cannes 1994, Pulp Fiction.

Dice Martino: “Se un talento del cinema mondiale come Quentin Tarantino ci annovera tra coloro che l’hanno formato vuole dire allora che una radice, una traccia, il nostro cinema nel mondo l’ha lasciata”. Ed i maestri di oggi, di quello che viene definito l’ action movie americano, come Joe Dante, Robert Rodriguez, Wes Craven, Sam Raimi continuano ad ammettere senza problemi di trovare ancora le loro fonti rivelatrici migliori proprio negli autori italiani, e davvero in quelli che facevano il cinema di genere, soprattutto dentro il clima degli anni di piombo in Italia. Ed era quella una risultanza di film che, proprio in Italia, tutto sommato, circolava anche in fretta e nel silenzio più generale, se non nel disprezzo quasi discriminatorio, della critica.  Quello che ora appare eccezionale è che, proprio con l’uso dei codici generali del cinema popolare, si è facilitato il passaggio, attraverso lo spettacolo cinematografico, di certi contenuti, anche estremi e scomodi della società italica del periodo.

I film di Martino quali  Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973) La polizia accusa: il servizio segreto uccide (1975), in definitiva, restano esempi concreti in questo senso, e letti in tali contesti queste pellicole hanno scoperchiato e sottolineato delle realtà che venivano altrimenti ignorate (o raccontate con oscurità o nascoste dietro il filtro della metafora) dalla cultura cinematografica più decisa e politicizzata.  La polizia accusa, il servizio segreto uccide rimane il film che per la prima volta ha portato sullo schermo i servizi segreti deviati ed i tentativi di golpe. Erano delle storie tutte italiane, vere, raccontate dalle cronache dai giornali di quegli anni, basti pensare al Piano Solo del generale De Lorenzo o al golpe del principe Junio Valerio Borghese.

Dice Martino (soffermandosi un po’ sulla traduzione tecnica di quelle cronache):  “La polizia accusa: il servizio segreto uccide ha avuto nette le suggestioni di un film che ho amato moltissimo, Z l’orgia del potere, di Costa Gavras. Ho sempre ammirato il tipo di immagini ed il grande ritmo di quel film”. Insomma è il miglior cinema di genere che, insieme alla migliore commedia all’italiana, ha saputo raccontare il Paese meglio di interi trattati di sociologia, e questo grazie ad una scuola di registi, sceneggiatori e produttori che sapevano, come pochissimi, intrecciare cronaca, storia, costume, esperienza personale e diagnosi politica nel contesto narrativo e spettacolare di un film. In questo ambito, che noi ci ostiniamo a definire di valore addirittura antropologico, ci sono stati film, nel periodo, che sono riusciti a dare anche un profondo scossone al comune senso del pudore, hanno raggiunto, nel tempo, la risultanza di un contributo, quasi al pari di una molotov o di una bomba carta, per fare cadere oscuri e negativi tabù di natura religiosa e sessuale. Hanno, tutto sommato, un tale valore titoli come, ad esempio, e tanto per restare ancorati alla sola filmografia di Sergio Martino, Giovannona Coscialunga, disonorata con onore (1973), pellicola citata persino da un eroe popolare come pochi davvero, quel tal Ugo Fantozzi-Paolo Villaggio pensate un po’, che, nel glorioso film Fantozzi (1975) di Luciano Salce, lo indicava, scherzosamente ma non troppo, come film simbolo della storia contemporanea per una rassegna da cineclub, e poi Cugini carnali (1974), Quaranta gradi all’ombra del lenzuolo (1976), Spogliamoci così senza pudor… (1977).

La filmografia di Sergio Martino vanta all’esordio esordio due documentari,  Mille peccati… nessuna virtù (1969), e, soprattutto, America così nuda, così violenta, un film che nel 1970 aveva affascinato e sconvolto un pubblico, tutto sommato, non abituato ancora a viaggiare. Ed infatti la dominante del cinema di Martino, pensiamo, proprio per i suoi interessi sociali e sociologici, resterà sempre di stampo semidocumentaristico. Non documentari certamente, ma solo film che rinunciano assolutamente ad una ricostruzione in studio. Martino vuole mostrare il vero volto dell’Italia ed alle vecchie favole melodrammatiche, strappalacrime, farsesche o di cornice western, ai vecchi fondali di cartapesta della eppure grandiosa stagione dei peplum, sostituisce la verità dell’Italia quotidiana, con la sua gente reale, concreta, compromessa.

Dice Martino, analizzando un po’ il suo esordio: “Il cinema italiano ha sempre vissuto, soprattutto in quegli anni, dell’esempio che nasceva da un certo tipo di cinema; io avevo davanti a me il successo di un film precedente, che aveva interessato moltissimo il pubblico italiano, Svezia, inferno e paradiso, diretto nel 1968 da Luigi Scattini, un documentario rivelatore di questo grande profumo di libertà svedese, e su quella scia noi siamo riparati in America, in un’altra realtà, per recepire e portare un’altra testimonianza reale, abbiamo filmato e descritto quindi un territorio secondo un ottica ed una motivazione reale e precisa, che in quel momento ci era apparsa, anzi sicuramente lo era, una società in cui si stava concretizzando una cultura new-age, underground. È stata un’esperienza, questa americana, molto formativa per la mia cultura, tutto sommato una cultura ancora borghese, che incontrava per la prima volta un altro mondo, estremamente affascinante, come quello degli hippies”. Martino descrive l’ esperienza americana come qualcosa di decisamente glorioso e toccante, le esperienze sono state notevoli, tra le più marcate l’incontro con alcuni reduci dal Vietnam, la terribile guerra in atto in quel periodo, il lancio dell’ Apollo 12, vissuto proprio dal vivo, a pochi passi dalla rampa di lancio, ed il glorioso concerto dei Rolling Stones a San Francisco.  In fondo, ad una più attenta analisi, è palese che i documentari di Martino, rivisti oggi, annunciavano in qualche maniera alcuni temi primari che, dopo l’ottica dello sviluppo documentaristico, in seguito invece tratterà proprio narrativamente, in un contesto cioè thriller, fantascientifico, anche di farsa estremamente comica, come sarà appunto nel 1982 un film gioiello come Cornetti alla crema. Questo per sottolineare ancora una volta come nel popolare cinema di genere di Martino (e non solo nei suoi certamente) i tratti sociologici delle trame restavano necessariamente in netta e continua evidenza.

Comunque il terzo film della sua stagione cinematografica è però un western,  Arizona si scatenò e li fece fuori tutti (1970). Bellissimo titolo, ineccepibilmente, e bellissimi i magnifici (e mitici) cartelloni, ma l’esperienza di Martino al genere western, e nel periodo di maggior sfruttamento commerciale, si ferma in ogni caso a questo film. Mannaja, il  secondo western di Sergio Martino vedrà la luce molto più tardi, solo nel 1977, e sarà anch’esso un film notevolissimo, anche se, nella sua essenza, il mercato del genere western era ormai avviato verso il tramonto. Ma sarà comunque Robert Rodriguez a riproporre il personaggio estremo di Mannaja nella sua interezza, anche se non propriamente in una cornice western, nel film  Machete (2010), dopo averlo proposto nei finti trailers del precedente e bellissimo film, ma non capito abbastanza (quello che nei suoi nobili intenti era uno omaggio documentato e dichiarato al nostro cinema di genere), Grindhouse, che Rodriguez ha firmato insieme a Tarantino nel 2007.

Martino però prosegue, da sempre, verso un’altra corrente cinematografica che, nel frattempo e sulla scia di L’uccello dalle piume di cristallo (1969) di Dario Argento, cominciava in Italia a camminare con le sue forti gambe: il thriller a sfondo sociale ed erotico. E nascono quelli che per noi continuano a restare i lavori migliori di Sergio Martino: Lo strano vizio della signora Wardh e La coda dello scorpione, entrambi del 1971, Tutti i colori del buio e Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho le chiavi del 1972 fino ad arrivare al capolavoro del genere,  I corpi presentano tracce di violenza carnale nel 1972, film che spopolerà anche in America con il titolo di  Torso. E Torso è il film che in più occasioni Tarantino omaggerà dalle platee mondiali, decantandolo meravigliosamente e ripetutamente dalla sua indole qualitativa ed inarrestabile, una patente, quasi, di manifesto per tutto il suo cinema. D’altra parte anche il regista John Carpenter, non ha mai negato di essersi fortemente ispirato proprio a Torso di Martino per approfondire certe atmosfere, certe tensioni, certi spessori, certe sue convinzioni sul genere dell’horror, che poi troveremo tutte nel suo capolavoro, Halloween  (La notte delle streghe) il mitico film del 1978, apripista di una serie formidabile che condizionerà ed ispirerà moltissimo tutto il cinema dell’orrore che verrà successivamente. Notevoli anche i successivi titoli che Martino realizza tra il 1974 ed il 1975: i frenetici La città gioca d’azzardo e Morte sospetta di una minorenne, pellicole che, pensiamo, continuano a restare superlative anche per i continui richiami alla contemporaneità della cronaca, e dell’epoca e di quella dei nostri giorni. Trovavamo in quelle immagini tutto ciò che ci succedeva sotto gli occhi. Oggi il cinema italiano è capace ancora di ripercorrere o di cavalcare la tigre della cronaca più attuale? Anzi, è ancora adatto per farlo? E verso la fine del decennio settanta inizia per Martino quello che è il suo cinema cannibalico (il genere diverrà però emblematico nel 1979 con il film Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato): capostipite è nel 1978 La montagna del Dio cannibale, a cui seguiranno, entrambi nel 1979 e tra varianti quasi sempre colpite al segno, L’isola degli uomini pesce e Il fiume del grande caimano.

Ora Sergio Martino si sofferma sulla grande vitalità, sulla grande spinta creativa, sul grande tempismo culturale degli anni sessanta. Erano ancora i primi anni del dopoguerra ed insisteva un motivo, la ricostruzione dalle macerie, il ripristino proprio del mondo culturale dopo la distruzione ed un ripristino dell’industria cinematografica. Ed il cinema di genere in questo processo è stato determinante. Dice Martino: “I nostri film di genere degli anni settanta erano esportabili, creavano grossi guadagni nel mondo intero, permettevano quindi alla nostra industria anche il finanziamento di prodotti più artistici”. Molti film di Fellini quindi (lui voleva molto bene al cinema di genere), di Antonioni, di Visconti, di Bellocchio, di Maselli, dei fratelli Taviani, di Rosi, di Petri e di altri della categoria si sono potuti finanziare grazie agli incassi di queste pellicole, che eppur si ritenevano, dozzinali. Continua Martino: “Oggi il nostro cinema è ridotto, per forza di cose, al solo sfruttamento interno e produce quindi pellicole giuste solo per questo contesto”. E quello che, in definitiva, pensa Sergio Martino in questo momento lo pensiamo un po’ in tanti: oggi la nostra produzione realizza film nobilissimi ma pallosi, letteralmente, dove vedi gente seduta a discutere per un’ora e trenta, minuto più o minuto meno.. Ascolti anche cose interessanti, ma insomma…” Gli anni ottanta vedono il cinema di Martino tornare verso la commedia più classica, la commedia che strappa le risa ed il divertimento dalle situazioni, e non piuttosto, dal dialetto o dalla più semplice parolaccia, e questo, negli anni deputati, resta piuttosto innovativo per le platee italiane: oltre al citato Cornetti alla crema troviamo, tutti dalle gag assolutamente ispirate ed in qualche caso di livello addirittura geniale, titoli come: La moglie in vacanza…l’amante in città e Zucchero, miele e peperoncino, girati nel 1980, Spaghetti a mezzanotte (1981), Ricchi, ricchissimi, praticamente in mutande e Acapulco, prima spiaggia a sinistra (mitica la geniale scena di Dio…mede…) (1982), Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio e Se tutto va bene siamo rovinati (1983), L’allenatore nel pallone (1984), dove insiste un Lino Banfi-Oronzo Canà, allenatore della Longobarda, davvero ai limiti della forza umana. E dopo? E dopo siamo ai giorni nostri pensiamo, subentrano i condizionamenti, le contaminazioni, ed anche i più delittuosi tentativi di autocensura per prodotti che saranno, perlopiù, studiati per un pubblico televisivo che non si deve scandalizzare, anche se qualche titolo uscirà anche nei melanconici cinematografi delle multisale computerizzate: Casablanca express (1989), Sulle tracce del condorMal d’Africa e American Risciò, tutti del 1990, Spiando Marina (1992), Graffiante desiderio (1993). Ed è la televisione, ahinoi, l’ultima forma produttiva del cinema di Sergio Martino: Doppio misto (1986), Ferragosto Ok. (1986), Provare per credere (1987), Un australiana a Roma (1987), dove recita una Nicole Kidman giovanissima, Un orso chiamato Arturo (1992), Padre papà (1996), Mamma per caso (1997), Cornetti al miele (1999), A due passi dal cielo (1999), Il cielo tra le mani (2000), Una donna scomoda (2004), nonché le serie L’Ispettore Giusti, L’ultimo rigore 1 e 2, Carabinieri 5 e 6. Dimenticavamo: canto del cigno per la filmografia cinematografica di Sergio Martino, L’allenatore nel pallone 2, realizzato proprio a richiesta del pubblico nel 2008, dove però Lino Banfi-Oronzo Canà, ancora allenatore alla Longobarda, è ormai devastato (agli occhi del pubblico) dalla personalità innocua di Nonno Libero, il nonno televisivo della serie Un medico in famiglia.

Giovanni Berardi



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