È ormai certo, nonostante sia necessario attendere l’uscita
delle successive stagioni per dare un giudizio definitivo, che cadremmo in
errore qualora dovessimo catalogare “Better call Saul” - serie televisiva che
narra delle vicende di Saul Goodman, istrionico avvocato di Walter White in “Breaking
bad” - tra quei prodotti che vengono comunemente definiti spin off.
Ci si trova, dunque, di fronte a difficoltà interpretative di non poco conto dal momento in cui il nuovo progetto di Vince Gilligan, che non a caso è uno dei migliori autori in circolazione, assume connotati tanto ambigui quanto interessanti. E se la domanda, scontata ma legittima, che più ci si potrebbe porre riguarderebbe sicuramente la non/possibilità di fruizione trascendendo la visione della “serie madre”, la risposta a tale domanda potrebbe dire molto sulla riuscita degli intenti che gli autori s’erano posti. Infatti, nonostante i riferimenti a “Breaking bad” siano fondamentali per intrattenerne gli appassionati - basti pensare alla presenza di personaggi come Mike Ehrmantraut, che qui è quasi coprotagonista, oppure Tuco Salamanca, che invece appare più in secondo piano - si rivelano essere parimenti funzionanti anche per chi di “Breaking bad” non ha mai sentito parlare (solo alcuni brevissimi momenti sono inseriti per stuzzicare le menti dei fan più audaci: il riferimento alla vacanza in Belize, il racconto di Saul che porta a letto una donna spacciandosi per Kevin Costner, etc.). Se il tocco visivo resta un marchio di fabbrica riconoscibile e pressoché invariato - complici la medesima ambientazione (Albuquerque); i campi larghi nel deserto; l’uso sistematicamente pulito della m.d.p. - la vera sorpresa risiede nei multiformi modi fusi senza forzatura nella sceneggiatura che, nonostante l’apparente confezione a mo’ di dark comedy (non si può non citare la scena in cui un ancora poco esperto Saul dissuade un narcos sudamericano dall’uccidere due suoi clienti, convincendolo del fatto che spezzare una gamba cadauno sia una punizione proporzionata al danno arrecato), fornisce dimensioni psicologiche dettagliatamente ragionate spostando l’attenzione e l’intrattenimento in questa direzione e non soffrendo della mancanza dell’elemento ritmico/spettacolare su cui invece verteva maggiormente la serie originaria - contribuisce non poco a dare toni inquietanti all’atmosfera il personaggio di Chuck, fratello del protagonista, diventato completamente repellente all’ambiente esterno e ad ogni sorta d’oggetto elettronico, fonte luminosa, etc. -.
Le immagini di apertura della puntata pilota (“Uno”),
colorate con un bianco e nero che sbiadisce gli avvenimenti futuri più di quanto
si potrebbe fare con un passato da lasciare alle spalle, mostrano Saul in
incognito ed alle prese con la sua nuova identità dopo gli eventi di “B.B.”,
mentre l’ultimo episodio si chiude, accompagnato dalle note di “Smoke on the
water”, temporalmente prima: il protagonista - interpretato da un Bob Odenkirk sottilissimo
nel dettagliare tutti gli strati interiori che compongono la psicologia del
personaggio -, che nel corso di queste dieci puntate ha cercato di lasciarsi alle spalle l’appellativo
di slippin’ Jimmy (letteralmente Jimmy scivolone) per diventare James
McGill (che è il suo vero nome), nel proprio processo di agnizione scopre che
il suo vero Io è quello corrispondete al carattere che più tardi avrà il nome
di Saul Goodman -; questa prima stagione, a quanto pare, almeno nelle
intenzioni, è quindi soltanto il tappeto rosso steso per preparare l’arrivo di
un altro prodotto che si prospetta essere sopra il livello dei propri cugini televisivi - per il seguito
bisognerà attendere i primi mesi del 2016 -.
Vince Gilligan, così come Dio creò la donna dalla costola di Adamo, da una costola di “Breaking bad” ha creato qualcosa di simile ed anche lui, con ogni probabilità, si è migliorato. Antonio Romagnoli
