La burocrazia, si dice. I lacci e lacciuoli, i contratti nazionali, i sindacati. I magistrati che fanno troppe ferie.
O forse anche situazioni come quelle che racconta oggi sul corriere Sergio Rizzo: giudici che svolgono le due parti in commedia, per lo Stato e contro lo Stato
ll caso di un ex giudice costituzionale che difende in una causa contro l’amministrazione pubblica un costruttore già condannato per truffa aggravata. Motivi di opportunità avrebbero sconsigliato anche a certi magistrati di promuovere un ricorso per non andare in pensione a 70 anni.
Può un ex giudice costituzionale patrocinare in una causa contro lo Stato un signore già condannato per truffa aggravata ai danni del medesimo Stato e salvato dalla pena definitiva grazie alla prescrizione? Certo che sì. Non c’è una legge, non un regolamento, ma neppure una circolare che lo impedisca. Ma che una cosa del genere lasci un sapore buono in bocca non si può proprio dire.Il fatto è che non riusciamo proprio ad abituarci all’idea che in questo Paese chi ha servito lo Stato, e magari lo serve ancora, possa a un certo punto schierarsi contro lo Stato. E questo, si badi bene, indipendentemente dal livello dell’incarico pubblico ricoperto.Il caso al quale ci siamo riferiti è quello del contenzioso miliardario che oppone l’ex costruttore Edoardo Longarini allo Stato italiano. Dell’incredibile vicenda si è occupato ripetutamente il Corriere e ha riferito il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio il 14 ottobre alla Camera. Già concessionario dei lavori per la ricostruzione di Ancona, quindi di Macerata e Ariano Irpino, Longarini è incorso in una condanna per truffa allo Stato, poi come detto prescritta, nonché in una ulteriore sanzione della Corte dei conti. Ciò non ha impedito che un arbitrato rocambolesco imponesse allo Stato di versare a Longarini, che già aveva intascato 250 milioni di euro pubblici, la sbalorditiva cifra di 1,2 miliardi. Ebbene, nel ricorso intentato dal ministero delle Infrastrutture per evitare quello sciagurato salasso, Longarini si avvale del patrocinio dell’ex giudice della Consulta Romano Vaccarella. L’avvocato di Longarini venne nominato dal Parlamento alla suprema corte nell’aprile 2002 con 583 voti: praticamente un plebiscito. Cinque anni più tardi si dimise in polemica con il governo di Romano Prodi sul referendum elettorale. Fu una questione di principio e di coerenza.Vaccarella esercita la professione di avvocato. Il suo mestiere è difendere qualcuno. Ma un avvocato può sempre scegliere chi difendere, magari proprio per coerenza. Tanto più che in casi come questi la scelta ha risvolti che vanno ben oltre le questioni puramente professionali. Ci si dovrebbe per esempio domandare se sia opportuno, per un avvocato che ha ricoperto un così alto incarico pubblico, prendere come ha fatto sempre Vaccarella le parti in una causa civile contro la Regione Lazio dei 77 ex consiglieri regionali che contestano un taglietto ai loro ricchi vitalizi.Già, l’opportunità. Purtroppo la domanda circa l’opportunità di una determinata scelta, in un Paese nel quale l’interesse pubblico passa frequentemente in secondo piano, sono assai rare. Tranquillizziamo Vaccarella: il suo caso non è affatto isolato. Certi avvocati dello Stato o certi magistrati amministrativi che intervengono come arbitri (retribuiti al pari di professionisti privati) nelle controversie fra imprese e pubblica amministrazione, e poi danno regolarmente torto allo Stato che paga loro lo stipendio, difficilmente quell’interrogativo se lo sono mai posto. Così come quegli altissimi esponenti dell’avvocatura che hanno fatto ricorso al Tar contro la decisione del governo di mandarli in pensione all’età di settant’anni. O quei magistrati che hanno promosso un giudizio alla Corte costituzionale contestano il taglio delle loro buste paga.Per non parlare di ciò che si verifica nei livelli più bassi degli uffici pubblici. Dove le storie di pezzi dell’amministrazione che assumono decisioni apparentemente contraddittorie con l’interesse pubblico sono all’ordine del giorno. Qualche settimana fa, mentre era in preparazione la legge di Stabilità, l’ipotesi avanzata dal governo di dare una sforbiciatina all’aggio dei concessionari del gioco d’azzardo, che avrebbe fatto risparmiare alle casse pubbliche un centinaio di milioni, è stata bocciata da non si sa quali tecnici delle Finanze con alcune acrobazie di tipo giuridico che abbiamo fatto sinceramente fatica a capire.Il fatto è che la crisi in cui versa la nostra pubblica amministrazione è anche il riflesso delle cattive abitudini di una burocrazia che troppo spesso recita due parti in commedia. E che questa sia la radice profonda delle patologie che la affliggono, esplose di recente nelle vicende di Roma, è più che una semplice impressione. Per questo una riforma della pubblica amministrazione che abbia senso dovrebbe per prima cosa recuperare un principio morale fondamentale: chi serve lo Stato, serve solo quello.