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Sessismo linguistico: dalla punta dell'iceberg al ghiacciaio
Creato il 07 aprile 2012 da Kris @zinfokLa pubblicazione del saggio Sexismo lingüístico y visibilidad de la mujer (Sessismo linguistico e visibilità della donna), in cui Ignacio Bosque valuta delle guide per un linguaggio non sessista, ha aperto un dibattito che è rimasto sulla punta dell'iceberg. Vi propongo di svilupparlo per affrontare ciò che rimane nascosto nelle acque più profonde e ciò che succede ai ghiacciai di cui sempre affermiamo l'accumulo di ghiaccio perenne e che oggi si sciolgono a un ritmo sostenuto. Perché le parole sono strumenti per il pensiero e la conoscienza, e il genere maschile costituisce il tassello chiave dell'umanità, delle scienze sociali, della politica, del giornalismo... Bosque e alcuni altri propongono di continuare ad utilizzare il genere maschile affinché noi donne non ci si senta escluse. Certo. Da quando, nel 1910, noi donne abbia avuto accesso all'Università, abbiamo acquisito parole con cui si elaborano il pensiero e la conoscienza, sviluppate intorno al concetto di "uomo". Tuttavia, dietro il professare, molte donne e alcuni uomini hanno riconosciuto che il maschile apparentemente generico non permette di designare entrambi i sessi perché marcato e porta a considerare le donne una "anomalia", in conformità con quanto spiegato da Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche. La maggioranza propone di dare visibilità alle donne attraverso un linguaggio non sessista apportando delle modifiche alle diverse discipline "con una prospettiva di genere". Dal mio punto di vista, la lettura dei numerosi testi mi ha portato a scoprire che il maschile, come si usa nel dibattito pubblico accademico, politico, giornalistico, non si applicano né alle donne né agli uomini, perché considera umano solamente l'archetipo maschile
Per questo noi donne possiamo sentirci incluse nei maschili, perché siamo dove vogliamo essere. Ma alcune li evitano, coscienti del fatto che colpiscono l'obbiettivo della macchina fotografica che usano, riducono il fuoco sugli essere umani, lasciano fuori parte delle relazioni sociali, cancellano le sfumature, creano l'illusione ottica di vedere l'universale e portano a confondere il particolare con il generale. Cercano inoltre altre immagini e parole adeguate a società plurali e complesse che vogliamo cambiare per renderle giuste ed eque. Ho riscontrato il primo indizio del fatto che i maschile restringano e falsano la nostra conoscienza quando ritornai all'Università come professoressa. Da studente, l'enuciato "l'uomo è il protagonista della storia" mi ha permesso di passare dalla versione tradizione di date, eroi e battaglie, ad un'altra che mi ha aiutato a comprendere il funzionamento della società. Decisi di applicare questo insegnamento per spiegare la storia dei mezzi di comunicazione e della cultura di massa. Un giorno, un'alunna mi accusò di tenere delle lezioni "tanto maschiliste come tutti quelli di questa casa". Aveva ragione. Non menzionavo donne perché le ignoravo completamente. Per sanare la mia ignoranza lessi e rilessi attentamente, accorgendomi che la maggior parte dei testi accademici non parlavano quasi mai di donne, e se lo facevano era in modo negativo o ironico per alleggerire paragrafi molto densi. Dedussi che l'uomo che si considerava protagonista della storia non includeva le donne; i nomi propri confermavano il fatto di comprendere parte degli uomini; e gli usi attribuitigli denunciavano la mancata inclusione degli esseri umani di società ritenute primitive o sottosviluppate. Così, alla domanda di chi parliamo quando parliamo dell'uomo risposi che questo concetto è marcato da pregiudizi androcentrici, sessisti, adulti, classisti ed etnocentrici, e non solo dal genere, termine che iniziò ad essere utilizzato per emulare la cultura anglosassone. "Per fare grandi cose bisogna essere tanto superiori come è l'uomo rispetto alla donna, il padre rispetto ai figli e il padrone rispetto agli schiavi". Aristotele definì in questo modo i tratti dell'archetipo maschile, sapendo che poteva affermare la superiorità di quell'uomo affermando l'iferiorità di altre donne e uomini. E con questa frase elaborò una spiegazione per influenzare l'organizzazione della polis, riuscendoci. Fino ai giorni d'oggi. Nonostante gli studiosi e le studiose odierni offrano una versione non chiara delle parole, utilizzando il maschile come se non fosse marcato e generalizzando ciò che il filosofo attribuì solamente ad alcuni uomini. Inoltre, eliminano aspetti della sua analisi fondamentali per comprendere ciò che affermò, come l'esempio fatto. Proiettano verso il passato una visione centrata verso un pubblico che sottovaluta il privato come fosse insignificante o anomalo. Per questo non riusciamo a capire che fa o può fare ogni persona nella propria economia nazionale in realzione alle attività commerciali del consumo internazionale, con una speculazione finanziaria che è stata alimentata dai mutui subprime e davanti ai paradisi che la pubblicità promette e gli inferni della marginazione che le televisioni rendono drammatiche.
Non confessano, come fece Aristotele, che consideriamo "la guerra...un modo naturale di acquistare beni che comprendono la caccia degli animale selvaggi e la caccia di coloro che nati per essere addomesticati si rifiutano di sottomettersi"; che la guerra alimenta l'appropriazione privata e pubblica di beni a scapito di privare i più delle risorse necessarie per la sopravvivenza; che dominare altri popoli non è qualcosa di spontaneo; che gli uomini l'hanno praticato dopo essere stati crudelmente istruiti: che obbliga a distribuire compiti tra donne e uomini adulti ("l'uomo conquista e la donna conserva"); e alcune attribuiscono all'uomo tutta la violenza e negano qualsiasi complicità delle donne, imprescindibile affinché le giovani generazioni portino avanti e apliino il sistema. Per questo, davanti ad una crisi che non permette più di lodare gli eroi ne proclamarci superiori, perché l'Africa non inizia più dai Pirenei, sappiamo solo alimentare la paura...o intonare lamenti di vittimismo verso redentori professionali.
Certo, il concetto di "uomo" coniato da Aristotele fu utilizzato nelle università cristiano-scolastiche per gli uomini adulti europei vincolati alle gerarchie eclesiastiche, che inoltre dovevano mantenere il celibato. A partire dal XII secolo espulsero dalle università le donne, gli ebrei e i mussulmani, come ha spiegato Julia Varela. Poiché il cristianesimo europeo ha imposto il suo dominio su altri popoli, trasformò le relazioni sociali interne. Diversi uomini e donne prima esclusi sono stati inclusi negli scenari di potere e in qualche modo sono stati assunti; e anche se la lingua si adatta ai cambi sociali, oggi continua "a consolidarsi nel sistema grammaticale spagnolo", come "una prigione di lunga durata", secondo Fernand Braudel.
Tutto questo ci porta a non usare il maschile come è stato usato fin'ora ma tanto meno sostituire le parole femminili o evitare le parole. Tutto ciò costringe ad allargare l'interesse a percepire quello che finora era "anomalo" come normale: per promuovere una rivoluzione scientifica che permetta di fare diagnosi rigorose sui problemi delle nostre società affinché si trovino rimedi efficaci. Il duro lavoro in ambienti accademici che moltiplicano alcune valutazioni, costringono a fare e dire all'interno di canoni rigorosi e penalizzano qualsiasi tipo di avventura.
Fortunatamente, come ha rilevato Novanta Fernandez negli anni '90, al di là di questi monasteri c'è la vita. Altri scienziati hanno creato strumenti che consentono di elaborate una pluralità di spiegazioni, da posizioni diverse, in rete, in modo cooperativo. Ma non limitarsi a copiare e incollare dobbiamo passare dalla punta di un iceberg al ghiacciaio della cultura occidentale e chiederci come Donna Haraway: "Con il sangue di chi sono stati creati i miei occhi".
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