Settanta acrilico trenta lana

Creato il 22 aprile 2011 da Federicobona @Federico_Bona

È un po’ di tempo che ci giro intorno perché non mi viene facile: questo libro è stato salutato come uno dei migliori esordi italiani degli ultimi anni – e da poco è entrato tra i dodici candidati al Premio Strega – ma a me non è piaciuto per niente. Il punto è che quelli che dovrebbero essere i suoi pregi più importanti a me sembrano le sue più grandi debolezze. Primo tra tutti lo stile, intessuto attorno a un linguaggio ipermetaforico, alla continua ricerca di immagini, corrispondenze, significati. Come se non bastasse, l’intera storia è filtrata da un punto di vista – quello della protagonista – fortemente ripiegato su sé stesso e sulle proprie emozioni. Risultato: la realtà, i fatti cui assistiamo, non sono altro che la proiezione – o la rappresentazione – di un universo interiore. Con queste premesse non si può che arrivare a parlare di scrittura potente – come hanno fatto alcuni – o di linguaggio estenuato – come pare a me –. Lo so che non dovrei fare esempi, perché significa semplificare e perciò infierire senza possibilità di difesa, ma se partiamo dal fatto che il paesaggio esterno è un perenne inverno, grigissimo – salvo un lampo di luce nell’unico breve istante durante il quale la protagonista è innamorata – da lì in poi qualsiasi metafora si tenti di edificarci sopra, anche la più riuscita, ne esce squalificata. E in ogni caso la lettura risulta faticosa, oltre che stremante dal punto di vista emotivo. Sì, perché poi la storia non è altro che lo sprofondare nella depressione di due donne – la protagonista e sua madre – in seguito alla morte del padre e marito – rispettivamente –, scomparso, ahimè, insieme all’amante in un incidente d’auto. Ciò che ne segue è un rapporto fatto di silenzi e solitudini: le due donne, letteralmente, non si parlano più e comunicano tra loro attraverso lunghissimi sguardi oppure rappresentando tutta la mancanza di senso che vivono l’una scattando – e appendendo in casa – foto di buchi d’ogni genere, l’altra tracciando – e appendendo in casa – ideogrammi cinesi, di cui lentamente apprende significati e segreti. C’è bisogno d’aggiungere che tutto ciò crea un clima di claustrofobia e cupezza difficile da sostenere? Certo, per altri la cosa può risultare riuscitissima – e a guardar bene lo è – ma faccio fatica a salutare questo successo con gioia. Tralascio altre considerazione e, soprattutto, il finale, perché potrebbe sembrare che io ecceda nell’ironia, ma è chiaro a chiunque – credo anche a chi ha apprezzato il romanzo – che c’è qualcosa che non funziona nelle ultime tre-quattro, frettolose, pagine. E giuro che se si potesse aprire un contraddittorio ne sarei felicissimo, perché il tono eccessivamente severo di questa recensione non mi piace affatto.

Settanta acrilico trenta lana, Viola Di Grado (e/o, 190 pp, 16 €)

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