Magazine Cultura
Con questo libro dichiaro terminata per questa estate la lettura di storie deprimenti!
Perché non si può certo dire che la lettura di Settanta acrilico trenta lana metta di buonumore o lasci margini ad una visione ottimistica della vita e della realtà (sebbene riconosca il ciclo di morte e rinascita).
Camelia vive a Leeds, posto che viene descritto come il concentrato dello squallore e della tristezza del mondo con i suoi lunghi inverni e le sue periferie grigie e degradate.
Qui condivide l'appartamento con la madre, chiusa nel mutismo più assoluto e nell'abbandono di sé dal momento della morte del padre, caduto in una voragine apertasi nella strada mentre era in macchina con la sua amante.
Camelia sfregia qualunque forma di bellezza la circondi (recide i petali dei fiori, taglia e rimaneggia vestiti trovati nei cassonetti) e traduce manuali per lavatrici dall'inglese all'italiano.
Un'unica passione si accenderà nella sua esistenza, quella per la lingua cinese con le sue chiavi e per Wen, il ragazzo che gliela insegna. Ma questo squarcio di speranza è destinato dolorosamente a richiudersi.
L'accostamento della giovanissima Viola Di Grado, vincitrice del Premio Campiello Opera Prima, ad Amélie Nothomb è azzeccato nella misura in cui ritroviamo nel suo libro uno sguardo cinico sul mondo e sui sentimenti, una vena dissacratoria che trova espressione soprattutto nella lingua della scrittrice, che - per qualche strana assonanza - mi ha ricordato lo stile di Chuck Palahniuk.
Non credo ci sia dubbio sul fatto che il linguaggio abbia un ruolo importante nella narrativa della Di Grado, visto che costituisce sia l'aspetto più originale del romanzo sia il tema intorno al quale ruota la storia.
Il risultato è rilevante se si considera che si tratta dell'esordio letterario di una ventitreenne, e questo spiega almeno in parte le recensioni entusiastiche che sono piovute da quasi tutta la stampa specializzata, sebbene l'opinione dei lettori parrebbe meno uniformemente positiva.
Personalmente, ne riconosco potenza narrativa e originalità (soprattutto rispetto al panorama italiano); al contempo, mi è parso eccessivo e alla fine in parte noioso nella ripetizione degli stilemi linguistici, delle metafore ardite e delle situazioni narrative. Capisco che l'eccesso è una precisa scelta della scrittrice che sembra voler sfuggire a tutti i costi dalla banalità, ma mantenersi in bilico su quel filo sottile senza scadere nella vuota controfigura di se stessi è molto difficile.
Stiamo a vedere se Viola Di Grado ci riesce.
Voto: 3,5/5
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