2 gennaio 2014 di Augusto Benemeglio
Se vieni nel Salento, – scriveva Cesare Brandi – finisci per farne una corsa di nostalgia; nostalgia del Sud spinto, e quasi sentore della costa africana, nostalgia del mare, delle trattorie sul mare, e di quel vino rosé autentico e generoso, non falsificato. E la mia corsa è durata trent’anni.
Silhouette (Foto di Gianfranco Budano)
Oggi ne sono separato, ma solo fisicamente, spesso la mia mente si muove “sul silenzio come/ nel fiume un insetto dalle lunghe zampe”. E ripercorro il gioco antico della sabbia, il teatro, la danza e la creta, vado a caccia di quella esigua pattuglia di uomini che credono ancora nell’immaginazione come estremo tentativo di penetrare e disvelare il fascino misterioso e segreto che hanno le piccole cose della vita, dall’osso di seppia alla conchiglia, dall’ago e il filo, dai soldatini di piombo a Topolino, al gesso e alla lavagna, insomma di chi crede che si possa ricuperare l’antico culto della civiltà delle memorie. E ci torno spesso a Gallipoli e nel Salento, con la mente e il cuore, con lo stesso stupore vivo di quell’Anno Domini 1977, mese di febbraio, quando il libeccio sanguinario ci strapazzava la divisa, faceva volare i nostri berretti, devastava le tamerici e apriva crepe nella muraglia della “città bella”, ed Erik il Rosso, implacabile Comandante in seconda, ci faceva alzare alle quattro di mattino per un’esercitazione di soccorso a mare.
Come in tutte le cose, non conta l’inizio. Ma quello che diventi all’arrivo. E’ lì che hai chiaro quello che sei, quello che vuoi. Quando il passato è solo inutile rimpianto, ci saranno sempre cento metri che ti separeranno dal traguardo, e possono essere uno sprint silenzioso, una messa religiosa, come quelli dell’atletica, in cui occorre un’esplosione atomica di muscoli che entrano nel tunnel della corsia, nel flash irrelato di uno sparo, o pieni di frastuono, di rumori, di urla, di strepiti, come quelli del nuoto, con l’acqua che si strappa, con l’ultima onda che taglia come il vetro, le braccia grosse, e le mani, che si allungano e si fanno rami, gli spasmi che si dilatano e diventano urla che risuonano nella piscina.
Luigi Scorrano
I cento metri della vita non sono uguali per tutti, ma per tutti possono essere infiniti, come infinito è il Salento. Ricordo l’uomo dei treni, un angelo pensoso dai capelli bianchi, e dal sorriso timido, che incontrai nel quartiere antico de Lu Rraona più di trent’anni fa. E’ uno di quelli che non si lasciano sfuggire l’infinito, e l’infinito era nei treni. “Quei treni – scrive Luigi Scorrano – che passavano anche a Natale, coi radi passeggeri nella luce fuggente dei finestrini, quando l’allegra distrazione sembrava l’unico bene di tutti, nei falò con la loro bella fiamma di sarmenti, rapida a levarsi col suo mobile firmamento di scintille, e altrettanto rapida a crollare in quieta brace presto velata di cenere”; l’infinito era, (“è”) nell’uomo che “guarda ancora le stelle” e nella sua capacità di stupirsene: l’infinito è scritto nelle parole come amore amicizia fedeltà, che oggi finiscono con i resti dei pranzi pasquali o natalizi, dei panettoni o colombe, con i piatti e i bicchieri di carta, con il superfluo delle feste di tutti i giorni, nelle reliquie dello spreco, nei cassetti dell’immondizia che tappezzano la nostra civiltà attuale.
Lui, Gigi Scorrano, è uno che si esalta se vede un orizzonte, non si dispera se deve smontare e rimontare una speranza, e non sparisce se deve lottare, anche se parte in svantaggio riesce a recuperare, anche se si sente a pezzi sa che non deve mollare, perché sta lì, ad un’incollatura, anche se è stramorto anche se non ha più le gambe e il fiato, ma continua a scrivere, scrivere ricuperando il treno dell’antiveggenza, della memoria, della proezia, delle visioni, degli incubi e delle speranze. Fa parte anche lui di quei pattugliatori dell’ immaginazione, immerso nella meraviglia del silenzio, nell’esilio del silenzio, e riesce ad infiltrarsi, di soppiatto, nel corpo della poesia, e lotta strenuamente perché la grande battaglia della civiltà contadina non sia perduta, definitivamente sommersa.
L’infinito lo rivedo in Mesciu Ninu Russu, che assomiglia ad una nuvola in calzoni grigi, davanti alla chiesa matrice, dedicata a Maria Maddalena, e che mi dice, “Sto qui da un tempo immemorabile, ma nessuno mi vede”. E in effetti per vedere quest’artigiano raffinato, che costruisce giocattoli con fili di spago, pezzetti di legno e turaccioli di sughero, con mani magiche ed enciclopediche, che accarezza atmosfere, e, nei suoi quarantasei chili scarsi, si muove come in assenza di gravità, bisogna avere occhiali particolari. Mesciu Ninu è sempre avvolto in un velo di malinconiosa immaginazione. Sto “in un infinito vuoto, un infinito niente, tutto è vuoto niente… e una fame di vento”; ma mo’, non sai, mi faccio un goccetto, non sai, il vino era importantissimo per noi salentini, praticamente era tutto, lu mieru era il nostro piccolo infinito, ti dissetava e ti toglieva la fame, non sai, ti faceva ballare e ti curava le ferite del cuore, non sai, ed era poi un rifugio estremo alla nostra disperazione quasi insuperabile, non sai.
Eugenio Barba
L’infinito è negli occhi saraceni di Eugenio Barba, questo gallipolino monaco teatrale che abita le isole galleggianti del teatro etnico e multirazziale, che costruiscono ogni giorno ponti leggeri e resistenti per mettersi in contatto con la gente, linguaggi estetici per comunicare al di là delle lingue e con tutte le lingue, è un andarsi e riconoscersi, Noi dobbiamo far vedere l’uomo così com’è nella sua interezza, in modo che non si nasconda, l’uomo che vive, e questo significa corpo e sangue, il nostro fratello col piede scalzo e la pelle nuda che non mente a se stesso, l’uomo nei suoi abissi e nei suoi infiniti. E lui l’infinito l’aveva cercato in un piccolissimo centro del Salento, Carpineto, quasi quarant’anni fa (1974), dove, con il suo Odin Teatret, aveva rivoluzionato – diceva il prof. Luigi Rizzo – il ruolo del teatro, stimolato a compiere uno sforzo di sintesi tra fedeltà e tradizione. “Bisogna pensare al proprio teatro in una dimensione transculturale, nel flusso di una tradizione delle tradizioni”. Bisogna guardare il cielo vero e non attraverso i libri classici. Oggi sono ritornato sulle mura di Gallipoli, dove i maestri fabbricatori neretini consumarono parte della loro giovinezza, quei maestri che s’inseguivano con le voci di torre in torre e, puntigliosamente, misuravano lo spessore di quella infinita muraglia nelle sue diverse sezioni, il taglio dei conci fatto a coda di rondine, la qualità della pietra che doveva essere di carparo, resistente all’acqua, e la calcina e mortiere, impasto di vita e di sogno, dove ragazze affacciate alle finestre, ormai puberi, cercavano il primo Adamo nel loro pensiero…
”Chiudi la porta di quella cappella/ tieni lontane quelle bambine/ là, sull’impalcatura/ è sdraiato Gio. Coppola /il più grande pittore del Salento/ e la mano si muove su e giù/ e non fa più rumore di quanto ne facciano i topi/ la sua mente si muove nel silenzio delle candele.
Essere in vita? Un passo, un battito? Un respiro? Un’immagine? E poi che sia infinito, se vuoi proprio, montalianamente, infinitarti. Ed ecco, l’Astragali di Lecce, che segue le orme del grande regista, e viaggia nel tempo e nello spazio, il Salento, i Balcani, la Grecia, Cipro, Malta, verso un Mediterraneo che è fatto di porti, di approdi, di scambi, in rapporto osmotico col mare, ed ecco allora “Antigone, anatomia della resistenza dell’amore”, che entra veramente nel mare, mare “blue mood”, per lavare il corpo del fratello morto, e impercettibilmente passa nel soffio dell’anima la fiamma blu che consuma l’oscurità di cui si nutre.
Florio Santini
In questa terra alba che non è proprio bianca in senso letterale, ma è un campo di fiori, una coda di pavone, un manto di mille colori, rivedo l’infinito negli occhi dell’asino arpista, Florio Santini, che scrive da sempre i suoi appunti di viaggio, un dialogo di colori e di sangue con se stesso, tra il visibile e l’invisibile; è uno che conosce il sortilegio del mosaico che lo portò qui, in un tessuto di salti, in un idioma di lealtà, un idioma nello spazio, una lingua in pericolo. Lo incontro nelle nuvole più alte (Florio facci sapere qualcosa degli iperonti, graffi, ragnatele, piume di fuoco, figlie del sole, torme in fuga, danze e vino, spazi e contro spazi nel cuore dei vaporici celesti), nei territori di uno che non ha mai smesso di viaggiare e di stupirsi, che non ha mai smesso di cercare, inseguire orizzonti, pur rinchiuso, negli ultimi anni, nell’ala del castello De Viti de Marco di Casamassella, con la deliziosa vietnamita Siou-Wan, a inseguire le voci del fantasma di Ruggero Maramonte. “Tutti siamo scrittori; tutti potremmo riempire pagine di vita; tutti siamo personaggi dell’essere, trasformato in volere; in tutti noi urge un Prometo, in tutti noi soffre un Titano. Di noi tutti, ripeto, il cuore non bruciò. E Florio mi riparla del suo libro amato, “Sulle orme di Shelley”, che gli procurò una finale al premio Viareggio. Mi mostra la torre del Serpe che ha cantato in una sua poesia. Qui a Otranto, mi dice, torno spesso, c’è qualcosa di speciale, metto insieme due ricordi, un pescatore e una signora gentile che m’offre un sorriso e un boccale di birra, mi sembra che ci sia un’uguale propensione verso la solidarietà, l’amicizia e la solitudine, verso il sogno di una vita diversa da quella che ci incatenava nelle città, nella ripetizione di gesti, atti, parole… Qui abbiamo davanti ai nostri occhi la calma distesa del passato e possiamo ripassarlo senza fretta, fermare ogni tanto l’immagine, tornare indietro, fare dei replay, per capire meglio qualcosa, come assaporare un volto, un vestito, uno sguardo.
Aldo De Donno
L’infinito è nell’anima e nel cuore dell’ammiraglio di squadra, ex capo di stato maggiore della marina, Aldo De Donno, leccese come Quinto Ennio, Tito Schipa, Vittorio Bodini, Ennio De Giorgi, Edoardo De Candia, Claudia Ruggeri, Adriana Poli Bortone, che – smessa la divisa — ha deciso di andare a cercare il suo infinito negli occhi dei milioni di bambini che muoiono di fame e di malattie, e andare a fare il missionario laico in Africa, come avrebbe volentieri fatto don Tonino Bello se gli fosse stato concesso. Dice l’Ammiraglio che è come vedere la luce spegnendo, negare/agendo. Il nostro dovere come consorziati di questa società, di questo mondo, è rifiutare l’ingiustizia codificata, negare le definizioni storicizzate, incasellate nelle nostre coscienze intorpidite, dobbiamo negare il sistema agendo, dobbiamo creare il nostro sistema. Cielo e mare o terra devono essere una continua rinascita, una continua scoperta di molteplici infinite possibilità che stanno dentro di noi, e che dobbiamo tirar fuori, incarnare, canalizzare, sempre come un continuo dono, una continua sorpresa a noi stessi. Questo è l’infinito per il salentino De Donno, che rivedo negli occhi buoni del maresciallo Daniele Paladini, trentacinque anni, ucciso per difendere un ponte che lui aveva rimesso a nuovo, riedificato, un ponte è segno di amicizia e l’amicizia per i salentini è una passione, una vocazione.
Giacinto Urso
L’infinito è nel difensore civico emerito di Lecce, per vocazione, Giacinto Urso da Nociglia, la noce e il giglio, che ci sprona a prendere in mano il nostro destino e farci storia, ad abitare i nostri spazi con mente cuore volontà, fantasia, illuminarli di umanità e della nostra fede, della nostra intelligenza, della nostra cultura. E non considerarci più figli di un dio minore. Bisogna navigare nella materia vivente finché la pelle non soffoca il sangue, bisogna rispettare alcuni principi basilari civici della nostra costituzione, che sono poi quelli del Vangelo, quelli del buon senso, bisogna spendere le nostre energie in azioni/relazioni specifiche che affrontino e risolvano i rapporti con gli altri, dal problema condominiale all’Ente Supremo; non è vero che l’inferno sono gli altri, come disse Sartre, no; gli altri sono il nostro prossimo; o siamo comunità, o non siamo niente. Poi, una volta che si sono fatte le scelte, bisogna essere coerenti con queste scelte, fino in fondo. Si arriva ad un’età in cui i denti cadono anche senza far male,
“la memoria perde colpi, la prostata / si ipertrofizza, la vista ‘oscura // si celebra al netto d’ogni lamento / la cerimonia del disfacimento.”
Ma si rimane pur sempre uomini dentro l’anima che non avverte nessun peso degli anni, solo la solitudine e il peso dei morti. Ci vergogniamo sempre un po’ quando qualcuno muore, perché c’è sempre qualcosa che dobbiamo farci perdonare.
Gerard Rohlfs
Ritrovo la foto del vecchio Mirko Urro di Ugento, con il suo Zan-Zeus messapico trionfante; è in posa con un monumento vivente, l’infinito Gerard Rohlfs, salentino di Germania, con il candore dei suoi capelli color nuvola bianca, un dio che è sceso qui tra noi, con la sciarpa che vola in aria come in un quadro di Magritte e si fa nuvola e pioggia, la sciarpa fluttua dolcemente e cade in innumerevoli gocce di pioggia, che il vecchio dio raccoglie nelle palme riunite delle sue mani, Oh, dio Rohlfs, coi tuoi occhi celesti e profondi, epitome occidentale dell’anima, sai quanti normanni salentini hanno abbandonato le loro masserie (casa del re) per un giovedì fatto di nodi, qui sei venuto a ritrovare l’anima perduta dei tuoi antenati, cantando lo spazio fai incontri e ti trasformi. Il segreto del nostro lavoro, mi dici, non sta nell’agire, ma nel “ reagire”, reagire senza la fluidità del latte che addormenta, reagire ad una lingua in pericolo di morte, che non deve perdere il dinamismo, il disegno, la musica. Guai a passare l’idioma ad un altro, il suo tono si deforma, diventa vuoto movimento, un’ameba cinetica. Rohlfs a questo punto lascia il bastone e si bagna nelle acque mistiche di Leuca, alla fine di marzo, per rinascere, a novant’anni, intatto, dall’acqua, che custodisce l’anima mundi.
L’uomo unificato
“Chi siamo noi — s’interroga Calvino — chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienza, d’informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”
E con il destino come la mettiamo, Italo? Gli uomini – sussurra Sandor Marai — contribuiscono al loro destino, a determinare certi eventi. Invocano il loro destino, lo stringono a sè e non se ne separano più. E così è per la verità, sappiamo sempre qual è la verità, quella verità diversa che viene occultata dai ruoli, dalle maschere, dalle circostanze della vita… Pensiamo sempre che tutto possa essere rimandato a domani, dice Loi. Non è così, tutto urge, e tutto preme intorno a noi per essere detto e fatto. Non tollera omissioni e indugi, la vita.
“Perché l’anima ci fa così male?”
Perché dobbiamo stare vicini, perché dobbiamo parlarci, rivelarci gli uni agli altri, confessarci i dubbi, le speranze, la sete di verità e le disperazioni, dobbiamo condividere il senso di una vita che non è solo di uno, ma comune.
E “Dopo la vita cosa? Ma altra vita,/ si capisce – dice Raboni – Dove?
Ma nei luoghi dell’altrove, a Leuca, “nella finibusterrae che” — dice Antonio Errico — “non esiste, è solo una nostalgia che la scrittura cerca di alleviare”. Ed ecco che nel luogo che non esiste appare l’infinito, dove sbocciano fiori come anime prigioniere, e tutte le cose del caos interiore, delle anime parziali, si congiungono in una sola, l’uomo unificato…