Francesco Gallina
Di SONIA CAPOROSSI
Francesco Gallina è un baldo scrittore e poeta parmense ventiduenne, già molto attivo nel panorama letterario con numerosi premi nazionali in poesia e prosa e un thriller psicologico d’esordio alle spalle (De Perfectione, Helicon Edizioni). La selezione poetica che qui presentiamo è composta da sette testi che inquadrano perfettamente il lavoro di ricerca, di tipo soprattutto semantico e lessicale, dell’autore. Vi traspare un genuino e onesto neobarocchismo massimalista di fondo a fare da contrasto con la scelta di argomenti quotidiani e d’attualità accanto a tematiche schiettamente intimiste e liriche. Al di là delle suggestioni poetiche che l’autore stesso dichiara ostentatamente di riconoscere come proprie (Luciano Folgore, i poeti maccheronici, i poeti parodisti, Antonio Porta, i Vociani, Andrea Zanzotto, Pascoli, Govoni, Solmi, Montale e le ricerche dell’OULIPO), l’attitudine massimalista di cui parlavamo balugina attraverso il manierato sfoggio delle figure retoriche più istituzionali, dall’allitterazione alla metafora, dall’arcaismo per scelta dissonante all’iperbole, tuttavia rinnovate attraverso accostamenti e salti riassociativi inusuali che toccano contenuti di vita vissuta rinvigorendone il contenuto banale attraverso una “elefantiasi del dettaglio”, come direbbe Walter Pedullà, di tipo quasi gaddiano, nella veste scrittoria, e ispirata all’attitudine decadente, neocrepuscolare, di un civilismo impegnato postnichilistico nella posa. In questo senso, la versificazione di Gallina, illuminata com’è da epifanie improvvise di senso, ci sembra già marcata da una consapevolezza evidente dei propri mezzi e delle proprie intenzioni, aperta com’è alla comunicazione di contenuti anche lirici esteticamente fruibili da tutti, tuttavia attraverso una veste che dell’ironia e del grottesco, in senso finalmente metaoggettivistico, faccia vessillo in direzione di un recupero di ciò che fino a ieri sembrava straniante e che oggi permane ambiguo persino pensare: un Io davvero non-lirico in poesia, giacché, come scrive il poeta stesso, egli ha “abbandonato da tempo per strade / ambigue il ritmo del pronome io”.
Sonia Caporossi
Di FRANCESCO GALLINA
DIOTTRIE
Le forme nei turgidi lineamenti
all’alba impreparata, fosca e falba
di una nuova vista (nuovi pigmenti?)
si offrono oltre la lente appena fatta
quasi vere, sirene o alme morgane.
Ma ecco il fumo, il colore dell’ovatta
davanti alle pupille –due ossidiane –
che fanno da filtro e vedono opaco
se l’occhiale viene tolto: permane
l’alone: «ci vedo ben intricato!»
dico all’oculista, col destro chiuso
e il sinistro che arranca, affaticato.
Mostra le lenti: «È un problema diffuso!»
è tranquillo: ma io ho una strana paura
che questa correzione sia un sopruso
al vero, che la realtà non sia pura
non più vista come prima: inquinata
contraffatta, sotto una brutta abiura.
La realtà non mi pare come appaia:
un falso abbaglio, penso. Tutta colpa
di questa maledetta miopia.
dall’antologia Mevoj (Tapirulan, 2014)
HOMOCALIPSE
È tutta colpa del sistema: dicono
è tutta colpa del Sistema
dell’Idea platonica (idea scema)
che scema dal tubo catodico
alla bocca ancestrale della superstizione
fra le sinapsi del rivoluzionario
che trema dentro di sé al suono
del buon ragionamento, dell’oggetto
dell’imputazione, dell’io-agente.
Ma è tutta colpa del sistema: urlano
è tutta colpa del Sistema
e – all’evidenza – incalzano con l’arma
del complotto, del mistero misterioso
della cabala, iniettando una tarma
nella cocuzza del vecchietto mezzo rotto
nel bambino all’ascolto, esterrefatto
nel licenziato che s’incide l’aorta
nel riccone opinionista che si annoia
nell’operaio adirato, nella parola.
Si accantona allora l’atto del prodotto:
si addita il manufatto alla mano
del destino, al numero otto, al galattico
Volere, al fato fatto di chimere
alzando il naso alla sera ultraterrena.
Invocano l’Amore, l’amputazione
del ricordo: finge di essere morto
l’assassino che pesta la mano
che per sbaglio spara alla testa
che rompe il cammino della vita
però lui prega il Dio dell’indulto
della finta disperazione
e fida nel giudice intimidito
nella scusa, nel pater noster.
Mi chiedo allora dov’è
la responsabilità
se l’ora dell’occulto è sorta
se la coscienza risolve ogni problema
nell’Assoluto, se dal termine sistema
non guariremo più, se non avrà termine
questo diffuso herpes zoster
questa cancrena che ammazza l’IO.
EFFIMERI APPIGLI
Sono nel corpo arpioni di paura
che pungono con l’acido dell’ansia
affinché negli anfratti del cervello
fertilizzi la serpe del terrore.
Queste maledette gocce di calma
sulla lingua assorbono, poi, i pensieri.
È un attimo:
a liquide inspirazioni s’arena
sul cuscino il cuore e il suo martellare.
Ritornerà il mattino e avrà con sé
il sapore dell’incubo suicida
che trascina, come mucillagine
d’una letale lumaca, il ricordo
del sogno appena fatto e
lascia l’aroma di paroxetina
nelle sconnesse mulattiere
del pensiero.
I nervi contestano e rivogliono
impazienti quella dolcissima
bradicardia in gocce.
S’accascia per un po’ la depressione
sui valichi destrutturati
di questa vita iperattiva:
ho abbandonato da tempo per strade
ambigue il ritmo del pronome io.
LAMENTO DI UNA GIOVANE MONETA DA DUE EURO
Sotto le gomme di un’Alfa Romeo
soffre la cruda morsa della ruggine
l’icona di Dante in rilievo: sembra
che pianga, sotto gli aculei di pioggia.
Da Francoforte uscito fresco fresco
– dopo fusione, sbozzo a caldo
laminazione a freddo
e tranciatura del tondello –
mi impressero la figura di un vecchio:
dicon sia stato un grande, per lo meno…
Mi misero in marcia verso Corbetta
tra i tinnuli di tanti miei compagni:
ci ritrovammo in una macchinetta
come resto per studenti sfaticati
e di loro, uno, sotto l’imput del tabacco
dai tabacchi scorta ha fatto di sigarette.
Poi chiuso ha il tabaccaio per la crisi
e nella fonte di Trevi son caduto
per mano di un turista sciagurato:
cerco ancora il senso: non l’ho trovato…
Arrivò poi un clochard, mi pescò
per un piccolo pezzo di pizza alla Coop.
Andai a una madre, per il carrello
con un deposito monete un po’ vecchio:
nel riporlo, la molla mi lanciò
qui. Mai anima mi recuperò.
E ora piove sul selciato
sui miei costosi otto grammi e mezzo.
Vissuto per un mese o poco più
non voglio qui stare, fermo, senza un fine
senza un perché: meglio scivolare
in quel piombino che porta verso il mare
dove possa riavere sul fondale
la mia antica origine minerale.
COLLA
etilcianoacrilato è
questo ricordo fuso
col lontano passato
che trita, storce il viso
secca il respiro, le dita incolla
e non c’è acetone che tenga
con l’acqua bollente s’insiste
si tenta in ultimo con la lama
ma quel ricordo è una cisti,
monade d’inconscio che non si stacca
-alla radice, ferma-
all’improvviso sale
germoglia fin verso la bocca
e più torna a galla, più fa male
come una ribellione
non la si vuole abbandonare
è resina, colla epossidica,
è nostra, ma con essa è guerra
e la gemma del ricordo ricade
nella bellica terra della memoria.
A PUMMAROLA
A pummarola: dentro quel barattolo
assapori la voglia che Munira
ha di svegliarsi alle tre di mattina
per quei due soldi in più. C’è tutto il cuore
del saper apprezzare la fatica.
“Almeno qui, uccisi come bestie, non si muore”
pensa. Si sbaglia: a due passi
dagli immensi campi per le conserve,
è stato sgozzato un ragazzo
per problemi d’onore.
A pummarola: sulle lattine
c’è scritto così, ma non sa dirlo,
Munira dal velo sul capo
ha la R moscia, perde le M per strada e
abbandona dietro di sé sfingi sporche
di sangue. Ha perso un figlio,
nella Cairo serpeggiante di scontri
ha perso Yusuf, l’unico suo figlio
in piazza Tahrir, nel mezzo del golpe
contro il presidente Morsi.
E così la fuga, forse per paura
per stanchezza, per orrore:
intanto una sua lacrima si confonde
col sudore e intride, infonde,
il terriccio appena più scuro
di quello del mai scordato Egitto.
Il male, però, resta sulla terra
come nella sua testa: vano è evadere
dai ricordi, dai fantasmi, dai rimorsi.
Quel che Munira cerca,
nei campi macchiati di rosso, è un dolore
solo più attutito, monocorde.
NEL VUOTO SVUOTATO DAL VUOTO
mentre prudentemente
il girasole
sviene, tramontando
parenti ci scopriamo della solitudine
– non per un sciocco fatto di geni –
in questo semiparalitico sepolcreto
(da noi voluto?)
dove nel vuoto svuotato dal vuoto
s’assiste inermi all’istante
dall’occasione persa demolito
e perduto è tutto, attorno.
s’adagia
in un logorante pessimismo
forse frutto d’un pensiero abortito
solo qualche breve truciolo di gioia