Marco Scarpa
Di MARCO SCARPA
Pubblichiamo col permesso dell’Autore sette poesie di Marco Scarpa tratte dalla sua raccolta Mac(‘)ero, edita da Raffaelli Editore nel marzo del 2012.
Già risultata degna di menzione per ben due volte al Premio Lorenzo Montano (per “Bailamme” nel 2010 e per un Mac(‘)ero ancora inedito, menzione d’onore nel 2011), la poesia di Marco Scarpa si staglia sul panorama italiano contemporaneo con una forza segnica incisiva, “prattica”, ma di una praxis etica di scavo, d’indagine dell’Ereignis di heideggeriana memoria, come a me pare, in un senso filosofico portante. Poesia come “accadimento del proprio”, riconduzione dell’essere umano all’appropriazione di se stesso nel togliersi, nel nascondersi, nella notte dell’autocatabasi esperienziale, la poesia di Scarpa cade così dal cielo sulla terra, e nell’impatto ammorbidito dal raziocinio la fa in frantumi, in cocci aguzzi ubermontaliani, in mac(‘)eri(e) appunto, in sagome sfrante di essenze in divenire, nei brulli sottopassaggi di un’interiorità che è come il paesaggio decostruito dalla dis-trazione e distruzione di un terremoto. Se una volta ogni tanto posso esprimere un giudizio estetico puro e semplice, mi piace molto la sua scrittura spaziale e materica eppure meditativa, sofferente ed esangue insieme. Una mistura poetica che oggi è rara e che prende forma in questo cavillo speleologico dell’equilibrio, in questo indagare verbale (e mai verboso) nelle profondità di biacca della calce che ci adombra in mezzo ai ruderi restaturati della nostra cronotopia personale e che ci fa dire umani, nell’apparente assenza di una piega che nasconde, però, la piaga che c’è sotto, come scrive il poeta stesso:So di me quanto ho appresodai muri intatti, dalle superfici levigate,dalle crepe mai emerse in nessuno stratoe sopra ognuno, la tintura stessasenza levare ciò che sotto crea spessore.Stretta tende la parete ad inghiottire ciò che racchiude.Sonia Caporossi
***
… si direbbe un moto ondoso, un vagito
trattenuto, di cenere un cumulo
svanito con un soffio, spalmato
su più terra di quella calpestata.
Si direbbe sia sano dubitare con acume.
Poi piani, terrazze,
stenti a divergere, spazi
in memoria d’altri spazi. Poi
rimane il detto, si sarebbe dovuto
e il dovere ritomba la colpa
dei sensi, la più disgraziata.
***
Crescere, farsi uomo, realizzarsi
ha qualcosa a che fare con la forma
grezza, da limare, raschiando i detriti
spogliando l’ammasso con mani operose.
Costruirsi lentamente, levare l’involucro
volutamente togliere e ritrovarsi scarni
essenziali, alla deriva, corpi-continenti
che negli anni si staccano generando altezze.
***
Nel resto, nel rimasto
Nel resto, gli avanzi spuri
spiccioli, perché nel dato
trabocca l’eccesso, il troppo
e viene dato indietro, così
per troppo amore torna
l’estasi nel guscio, così le dita
ben oltre la mano, in presa
senza appigli.
Nel rimasto, il mai tolto
ciò che mai si è spostato
uscito invano
al di fuori del posto, così
per poco amore indugia
il cuore al tracollo, così le arterie
nell’abbaglio inaridiscono
cieche tra cavilli.
***
Grovigli
Sogno o m’inabisso
pulisco peripezie, spezzo
sottrazioni scolastiche, composto
spremo la sagoma, questo grumo
incistato, squaderno i rivoli,
le volte, sondo gli spazi,
i bordi, capitelli sparsi e indugio
confuso, tra ristretti marciapiedi,
orli, tra i pezzi, le scaglie,
il rimasto sopra, dopo
la fine del pasto, il consumato
non del tutto, le parole pure
confuse in altro sentire,
in un parlare oltre il vissuto. La pena
il suo significato scrutato a lungo
troppo e senza resa e senza meta.
***
Sotto vuoto
Resterà la mano, la carezza sulla fronte
il gesto scolpito, sbiadita la frase
tutte le lettere con la testa abbassata,
resteranno le falangi, il toccare calmo
a scostare il tempo, resterà nella forma
qualcosa del tatto.
***
Sagomare la parte malata, la fascia
di taglio, passare al setaccio le zolle
le zone grigie, occuparsi dei buchi
nel terreno, riempire l’incavo dei giorni,
disfare i luoghi, le vesti facendosi madre
svezzare un paesaggio senza spine.
“Che non sia nocivo, dove i piedi si sentano radici,
le orme segnali per orientarsi, le voci antenne
preghiere fidate, misure chiare per tracciare un percorso,
sottrarsi all’ombra del centro che si allarga.”
***
So di me quanto ho appreso
dai muri intatti, dalle superfici levigate,
dalle crepe mai emerse in nessuno strato
e sopra ognuno, la tintura stesa
senza levare ciò che sotto crea spessore.
Stretta
tende la parete ad inghiottire
ciò che racchiude.
41.954767 12.777958