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Settembre

Creato il 23 ottobre 2013 da Cultura Salentina

Settembre

23 ottobre 2013 di Titti De Simeis

The Words, dal film del 2012 diretto dalla coppia Brian Klugman-Lee Sternthal, al loro esordio in regia

The Words, dal film del 2012 diretto dalla coppia Brian Klugman-Lee Sternthal, al loro esordio in regia

Pioveva a dirotto sotto il pergolato di casa. La macchina si fermò e Mario scese. Non tornava lì da due anni, da quando si era trasferito a Monaco per una borsa di studio. Posò le valigie per terra, pagò il taxi e cercò le chiavi del cancello. Gli scivolarono di mano e caddero in una pozzanghera vicino ai suoi piedi. Si chinò a raccoglierle. Iniziava a fare freddo, l’estate aveva spento i suoi fuochi asfissianti e stava cedendo il passo ad un settembre brioso di sole e piogge fresche. Si aggiustò il colletto della camicia e cercò di coprirsi il capo con la ventiquattr’ore di cuoio nero. Il viale di casa era sempre lo stesso, la ghiaia sotto i piedi scricchiolava d’acqua e l’erba rinfrescata pareva di seta.

Arrivò al portone. Suonò il campanello, attese pochi istanti: attraverso il vetro, dietro la tendina di pizzo, suo padre si avvicinava lento, nella sua figura esile, alta, e, in controluce, il suo profilo dagli occhiali piccoli s’intravedeva distintamente. Quando gli aprì si guardarono pochi istanti, gli occhi lucidi di nostalgia appagata.

- Mario -

- Papà – le mani chiedevano le sue.

- Entra, sei tutto bagnato –

L’ingresso era illuminato da un abat jour e immerso in un tepore accogliente, il soggiorno dai divani bianchi era ancora come un tempo: due enormi finestre lasciavano vedere il giardino, immerso nel verde piovoso. Tra una finestra e l’altra una scrivania di legno chiaro con un grande fascio di fiori. Suo padre amava i fiori, li raccoglieva o li comprava. Gli regalavano bellezza, così diceva.

A sinistra, la cucina, lasciava passare un buon odore, invogliando all’assaggio.

- Cos’hai preparato di così appetitoso, papà? –

- Pasta al gratin con le verdure, la tua preferita – rispose.

Si guardarono. Suo padre era rimasto a vivere da solo lì, da quando sua madre era andata via.

Mario era cresciuto sereno, con un padre rispettoso e presente, complice e dolce come pochi. Aveva trovato in lui il sostegno necessario per colmare l’assenza della madre, mai tornata, nemmeno per vedere suo figlio, neanche per riabbracciarlo, una volta sola. Ora che gli era di nuovo di fronte, dopo tutto quel tempo, risentiva la tenerezza di quando era bambino ma avvertiva qualcosa di diverso, nei suoi gesti, nel suo sguardo a volte sfuggevole e nei suoi silenzi, inarrivabili come mai, prima.

   Si sedettero a tavola. Una tovaglia bianca e piatti di coccio erano un tappeto di calore e facevano ‘casa’. A Mario era mancato quel tepore, il profumo che sale dai piatti caldi mentre si aspetta di brindare al primo sorso. Era mancato lo spazio di un’attenzione, di una premura che fa sentire il gusto di lasciarsi andare senza difese. Lo capiva, in quei momenti.

   Suo padre lo guardò.

- Cosa c’è? – gli chiese.

- Mi piace essere tornato qui. E mi piace dirtelo – rispose Mario.

- Grazie, ne son felice – fece lui.

- Ma tu, è da quando son tornato che sembri a disagio -

Gli occhi di suo padre si fecero bassi. Si passò una mano tra i capelli e bevve un sorso di vino. Si schiarì la voce.

Mario smise di mangiare. Dalla finestra entrava l’umidità del temporale appena passato e prendeva il posto dell’afa del giorno. Si versò da bere. Guardò le mani di suo padre: giocherellava con le molliche del pane e cercava di evadere la sua attenzione.

- Papà – lo chiamò con il tono di voce che usava ogni volta che aveva bisogno di rassicurarlo e rassicurarsi.

- Sì, figliolo, sì. – gli rispose, pacatamente e con dolcezza voluta.

- Da quando ti ho telefonato per dirti che tornavo mi sono accorto di qualcosa che non riconosco, in te. La tua accoglienza nell’attesa, il tuo aprirmi la porta, la tua irrefrenabile voglia di sapere, di farmi raccontare non sono quelle che io conosco. E’ come se la mia presenza stonasse con il resto del mondo che ci è intorno e, con te, in primo luogo -

Suo padre accese una sigaretta e si arrotolò le maniche della camicia fino ai gomiti. Si passò una mano sul collo, dietro la nuca e si stropicciò le labbra. Alzò gli occhi verso Mario e li tenne fermi sul suo viso.

- Tuo padre sta diventando vecchio. – disse, ma si rese conto di stare prendendo tempo, di voler allargare la trama del suo racconto.

- Lo so – rispose, secco suo figlio.

- Hai sempre avuto la capacità di spiazzarmi con le tue risposte – gli disse.

- Cosa c’è, papà? Non sei rassicurante così. E’ già difficile immaginare e stare calmo, non so cosa pensare e tu non mi rendi più facile il tutto –

- Perdonami. Non volevo che il tuo ritorno avesse così poca serenità, ma sai anche che a te è difficile nascondermi e fingere qualsiasi cosa –

Mario accavallò le gambe e poggiò il braccio sul tavolo, seduto di traverso sullo sgabello di legno.

Il padre si alzò. Si diresse verso la libreria alle sue spalle e cercò un libro, un libro che suo figlio conosceva bene, era il suo preferito da  ragazzo. Aveva la copertina di cuoio rosso e i caratteri incisi in blu, era un libro di avventure dal quale aveva letto qualche storia. Glielo aveva regalato sua madre per un suo compleanno ed era una delle poche cose  rimaste di lei.

- Il mio libro? – fece Mario

- Sì. E’ il tuo libro – e glielo porse

Mario lo prese mentre con gli occhi seguiva suo padre intento a versarsi del brandy, le mani incerte e lo sguardo sfuggente.

- Figliolo, in quel libro ci sono le risposte che io non riesco a darti. Speravo di esserne capace, di essere capace di sedermi di fronte a te e non provare l’estraneità che tu respiri e, con essa, la mia fragilità, la mia inadeguatezza e questo sentirmi così poco ‘tuo padre’. Perdonami, ti prego –

La voce senza forze fu spenta da un sorso d’alcool, inghiottito con disperazione.

Mario calmò i suoi timori aprendo quelle pagine in cerca di una spiegazione che avesse un senso.

A metà libro, proprio all’inizio del suo racconto preferito, dei fogli scritti a mano, piegati e spillati.

Lettere. Datate una per una, in ordine di tempo. Su alcune c’era la grafia di suo padre e su altre una grafia sconosciuta, rotonda e piccola, delicata. La firma era un’iniziale, a volte in corsivo, altre in rosso e stampatello. Una “e” chiudeva ogni ultimo rigo, come una “elle” finiva i fogli scritti da suo padre.

Iniziò a leggere. Le parole si inseguivano una dietro l’altra, aprendo e chiudendo la porta alla curiosità e, a tratti, all’emozione più tenera.

Una storia, sconosciuta quanto desiderabile fece trascorrere quel pomeriggio, fino al ritorno del sole dietro alla tenda di giunco sulla veranda davanti casa. Una storia inattesa e dal gusto amaro, affetta da paura e incertezze asfissianti. Ma dolce e forte, infinita di tenerezza, passione mai chiamata, semmai, velata di allusioni e sospesi.

Il racconto di un amore, vecchio di vent’anni, claudicante di futuro ma ancora in piedi, in un presente senza più domande. Un amore incontrato in un pomeriggio d’inverno, a piedi, sul corso, vissuto un po’ alla volta nella confidenza desiderata, nella libertà mai gustata a pieno fiato. Un amore di solitudine combattuta, di volontà spietata in ogni difficoltà.

Un amore. E questo era già emozione. Una lunga storia d’amore. E questo era già coraggio. Una storia d’amore che finiva con due iniziali. E questa era magia

L’amore di suo padre, taciuto e soffocato nelle pagine di quel libro e che ora sapeva, finalmente, di bello, tra le mani di suo figlio, o almeno così avrebbe voluto, da sempre. Ma, in quelle lettere, c’era, soprattutto, la storia d’amore di un uomo per un altro uomo, cresciuta nel pudore e lontana dall’ignoranza che raggiunge, nella presunzione del giudizio, la sua ‘superiorità’.

La storia d’amore di suo padre che, nel silenzio del suo dolore, sperava nell’accoglienza del figlio, ma il timore di non essere un padre all’altezza di quel figlio, ne aveva frenato la vita, in un’ombra immeritata.

Mario, adesso, era solo in quella stanza. Le pagine nelle pagine.

Dal giardino giungeva l’odore di sigaretta e il cigolio di un dondolo. Il tramonto era ormai padrone della sera.

Asciugò gli occhi e si aggiustò i capelli, scivolati sulla fronte, china nella lettura lunga e disarmante.

La porta della veranda era aperta su una cascata di fiori bianchi e gialli.

Suo padre era di fronte a lui, gli occhi fissi nei suoi, perdutamente stanchi, arrossati e infiniti.

Mario gli sedette accanto, in silenzio, lo stesso che aveva accompagnato quella confessione sofferta e senza voce. Gli guardò le braccia: un velo di sole dorava la sua carnagione chiara, nei polsi batteva, a tempo, il suo candore.

Era seduto di lato, schivo agli occhi del figlio, in un altrove da se stesso.

Spense il mozzicone di sigaretta e si rivolse a lui, stentatamente.

- Nell’ingresso c’è ancora la tua valigia, figliolo. Intatta. Non sei neanche salito a portarla in camera tua – disse, .

- Me n’è mancato il tempo, papà. Lo farò, con calma – e gli strinse forte la mano fredda e tesa, come il cielo d’autunno.

L’ultima paura di suo padre si era dissolta. La paura di suo figlio era diventata un sorriso.

Era tornato a casa. Nel libro della sua infanzia aveva conosciuto un passato in cui non era mai entrato e da cui sua madre era fuggita con i tanti perché che non aveva mai compreso.

Mai, fino a quel momento.

 

Titti De Simeis


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