Dunque si ha una superficie focale raddoppiata rispetto alle consuete produzioni cinematografiche, e quello che bisogna chiedersi è se questa moltiplicazione delle sorgenti di visibilità è realmente funzionale o se crea solo della confusione.
All’inizio non è semplice entrare nel meccanismo vista la scarsa dimestichezza che si ha con un espediente così originale. Una volta prese le misure adeguate l’operazione di Bellot appare intrigante e seminale dal punto di vista teorico; siamo abituati che lo sguardo di un attore rivolto oltre la mdp si carica di ambiguità poiché non soddisfa quello dello spettatore creando così un limite tra invisibile e visibile. Con questo film, invece, il fuori campo diventa campo poiché all’attore che guarda si affianca ciò che sta vedendo, e lo spettatore, quindi, vede ciò che vede lui.
La struttura però non è così lineare perché spesso l’altra parte dello schermo mostra eventi non contemporanei a quella che le sta vicino anticipandola o susseguendola in un gioco di incastri rafforzato, soprattutto nella prima parte, da un montaggio che si rincorre autonomamente.
Parlo di prima parte perché il film è diviso in due tronconi anche dal punto di vista diegetico.
La prima (la migliore) ambientata in Bolivia si concentra su un argomento molto caro al cinema, quell’adolescenza turbolenta più volte illustrata. Tuttavia, come anticipato, questo film che ci crediate o no parla poco di sesso, piuttosto evidenzia le dinamiche che sottendono l’atto sessuale. Il quadro è quello di una società, sovrastata metaforicamente dal cartellone pubblicitario di biancheria intima, in cui conta soltanto scopare e dove la dignità di una ragazzina è calpestata dall’ego di un coetaneo che vuole solo aggiungere un trofeo alla sua bacheca.
Il sesso è solo sesso, non c’è niente prima – al massimo un abbordaggio in discoteca per ricucire il proprio cuore irrimediabilmente ferito dalla fidanzata – e nemmeno dopo perché qui non sono storie d’amore ma solo storie. La sessualità è vissuta come competizione, e nell’ottima scena sociologicamente significativa, come accettazione: il branco obbliga il ragazzetto timido ad andare con una prostituta, nonostante egli neghi la sua verginità c’è bisogno di una prova tangibile per far parte del gruppo.
La seconda parte, inserita in un contesto leggermente più adulto dove si inquadra la storia di un modello gay in America, perde di potenza perché il giochino estetico inizia un pochino ad appesantire la visione e perché si plasma su alcuni pregiudizi del tipo giocatore di football uguale a palestrato uguale a latin lover uguale a compagnone uguale a omofobo. Con una sorta di “crescita d’età” la pellicola affronta un tema più difficile come l’omosessualità unita ad uno stupro di gruppo - in cui per la prima volta lo schermo si fa unico (ma con un formato ridotto) - in grado di riservare una notevole sorpresa grazie al montaggio che nuovamente, però in maniera diversa, si rincorre.
Questo duplice occhio ci mostra in sostanza non chi dipende dal sesso, ma chi non si riesce a difendere da chi ne abusa. Non ci sono vincitori, solo vittime. L’espressione dei protagonisti che alla fine ci vengono riproposti è la stessa per tutti, sono solo ciglia bagnate, silenzi attoniti, bocche che si aprono per vomitare. Nient’altro.
In definitiva, una rarità che non va e non deve essere sottovalutata. Bellot lascia ad altri il compito di stuzzicare la platea che credendo di andare incontro ad una storiella eccitante si troverà invece alle prese con un’opera ambiziosa e in parte anche riuscita. Molto in parte, direi.
Qui sotto c’è una parte estrapolata dal finale.