Auguste Escoffier, Brillat-Savarin, Pellegrin Artusi, Livio Cerini di Castegnate, Ugo Tognazzi danno tutti delle regole precise per cimentarsi in un esperimento di fisica applicata che sarà presentabile e appetibile solo se riusciremo a realizzare un perfetto equilibrio termodinamico: il soufflé. Partiamo da elementi tutti rigorosamente a temperatura ambiente, sia che facciamo un soufflé di cioccolato sia che ne facciamo uno di tartufi, ossia il processo non varia se la preparazione è dolce o salata. Fondamentale è, se si parte da una base di purè di patate aver l’accortezza di lasciarlo intiepidire prima di aggiungere i rossi d’uovo, che si incorporeranno uno per volta perché un bravo sperimentatore sa bene che non bisogna variare più parametri assieme nel corso di un’esperienza di laboratorio. La fase successiva prevede la sbattitura delle chiare d’uovo per ricavarne una neve densa e fermissima: ci si può sbizzarrire sull’utensile da utilizzare per farlo, c’è chi ottiene risultati migliori con una semplice forchetta, chi si sente un po’ più sadomasochista e le frusta di gusto, chi invece è più tecnologico e adopera uno sbattitore elettrico. L’operazione di incorporare le chiare montate a neve all’impasto è di una delicatezza estrema, richiede un grado di mano ferma e gentile pari a quello che si dovrebbe avere maneggiando i seni di una monaca. La successiva fase richiede un ambiente, in questo caso un forno, perfetto: la cottura del soufflé dev’essere una trasformazione adiabatica, e qualsiasi infinitesimale variazione di temperatura imprevista farebbe irrimediabilmente smontare il preparato come una chioma cotonata anni ’80 in una raffica di Bora di Trieste, che per l’appunto è un vento catabatico.
La fisica pervade la cucina e la chimica la segue, in alcuni punti molto discretamente, ma è nella pasticceria che gli spettri di Antoine de Lavoisier, Amedeo Avogadro, Jean Gay-Lussac e Giulio Natta aleggeranno sempre attorno allo sperimentatore. I maestri gelatieri in particolare sono ampiamente debitori di Gay-Lussac, che per primo ideò un sistema di graduazione per stabilire la densità e il peso specifico dei liquidi; suo figlio spirituale da includere nelle preghiere della sera di qualsiasi novello Procopio Cultelli o Tortoni de noialtri è Antoine Beaumé, il padre dei gradi omonimi che indicano, secondo precise tabelle, la percentuale di un soluto in un solvente: il liquido sciropposo che faremo diventare gelato di frutta dovrà misurare circa 20° Bé (gradi Beaumé) quando lo andremo a mettere nella gelatiera, il tutto a temperatura ambiente, ossia una media di 15° C, con un minimo di 8° e un massimo di 22°. Lo sciroppo di zucchero che tanto si usa è un preparato di densità circa 36° Bé, fatto sciogliendo 1,5 kg di zucchero in un litro d’acqua: è meglio farlo a freddo, anche se è un’operazione lunga e laboriosa degna di un amanuense, si evita che lo zucchero scurisca e che si trasformi parzialmente per effetto del calore e della bollitura.
Nelle preghiere serali di cui sopra è d’uopo includere la grande Caterina de’ Medici, che insegnò ai civilissimi Francesi l’uso della forchetta, l’amore per il caffè e li mandò in visibilio con gelati e i sorbetti. Caffè e sorbetti, però, in Italia in generale e in Sicilia in particolare non giunsero da Firenze ma dal bacino del Mediterraneo: arabi e persiani usavano fare bibite al gelo, sorbetti, gelati, granite. La parola “sorbetto” deriva dall’arabo “scherbetldy”, che era un funzionario addetto alle bevande ghiacciate di sultani e califfi… e qui chiudiamo la parentesi storica.
In realtà, la scienza regina che regge la cucina non è la scontata gastronomia, non è la fisica, non è nemmeno la pignolissima chimica della pasticceria: è vecchia come l’universo e ne abbiamo coscienza da quando i primi ominidi tracciarono dei glifi sulla roccia, è la magia. Magia di quella vera, non una semplice idea fantasiosa da favola: chi di noi non vorrebbe poter agitare un po’ le mani in aria urlando “Scial Scial Scialanda” e far apparire dal nulla una cena completa per dodici persone? La magia consiste, semmai, nell’operare con dei materiali esigui (una scatoletta di ceci, una di fagioli e una di pelati) per trasformarli tramite l’applicazione di una volontà ferrea (la nostra) usando le proprie energie, originata dalla connessione personale con il divino (per esempio divinità come Annapurna, Dagda, Brigantia hanno energie legate al cibo e al sostentamento), catalizzata dalle erbe adatte (dalla cannella alla menta, al prezzemolo all’aglio, alle olive con le quali è fatto l’olio, e così via) e sostenuta dalle energie dell’acqua e del fuoco, per arrivare all’obiettivo di servire a quattro persone una cena improvvisata di sapore orientale, mettendo in tavola un curry di fagioli e humus che non tradiscano il fatto di non essere figli di legumi freschi, magari grazie ad una fascinazione. Parola di strega!
MM