Entrammo in un vicino bar, un posto molto ordinario (per non dire lercio) e ci sedemmo davanti a due caffè: il mio macchiato, il suo corretto rum; “correzione” per modo di dire: il suo caffè era trasparente come quello tedesco. Guardai meglio il suo viso, aveva qualcosa che non riuscivo a definire, era come se la conoscessi da sempre ma era impossibile; cercavo invano di ricordare a chi poteva assomigliare. Mi disse di chiamarsi Henriette, ma che tutti la chiamavano Minette, non le piaceva molto perché lo considerava inflazionato e infantile. Dopo il secondo caffè trasparente accennò a un uomo col quale era fidanzata da anni, senza mai essersi voluta sposare: “Se me lo chiedesse come si deve, magari”. Bella tempra di dama, pensai. Quando le chiesi come mai parlasse il dialetto locale mi disse che in realtà lei parlava tutte le lingue e nessuna perché aveva viaggiato molto, e quindi aveva assorbito un po’ di questo e un po’ di quello, ma che di origine era del sud degli Stati Uniti, vicino alla Florida… “ma si, hai presente la Calidornia, no? Tutte quelle arance…”. Il terzo caffè scomparve rapidamente, e Minette mi parlava di Michele, e di come la loro storia fosse scritta in ogni minimo dettaglio. “Scritta nelle stelle?” azzardai, preso da uno squarcio romantico. No. Scritta e basta. Lui è sempre perfetto, ordinatissimo, intransigente, puro come il ghiaccio dell’Himalaya, sempre nel posto giusto al momento giusto anche quando ci arriva per sbaglio, la legge fatta a persona. Lei sempre vestita di tutto punto, col tacchetto e il fiocco nei capelli come quando aveva vent’anni. Vanno a teatro e all’opera: lui si addormenta sempre e lei si vergogna del suo russare sommesso, ma siccome hanno un’immagine da mantenere non mancano mai a una prima. Sono sempre a tutti i ricevimenti di beneficienza, ma lui si annoia anche lì, e non si preoccupa che a lei pesi. Hanno diversi amici, ma alla fine lui è sempre a far danni solo con uno, buono affettuoso e un po' ingenuo: Michele lo tratta come un lobotomizzato, anche se non ha mai capito che è un genio poco legato alla nostra realtà, lei sospetta che se lo tenga sempre vicino per far risaltare la sua perfezione odiosa. Del resto, l’altro con cui va sempre in giro è il suo maggiore datore di lavoro e non si azzarderebbe mai a fargli fare la figura dello stolto. La vita con Michele oramai la annoia, la distrugge a volte: la sua facciata di perfezionismo nasconde un despota, un depravato. La sola salvezza è che ognuno dei due possiede la propria casa, e lei si vendica facendogli spostare i mobili di continuo; Minette ha imparato a ritagliarsi una piccola oasi di calma, con gli anni: gli dice che va a fare un soggiorno in una beauty farm e invece gira il mondo con due spiccioli, vivendo come una barbona alle volte, o facendo mestieri immaginari come la vongolara. Ha bisogno di incanaglirsi ogni tanto per attutire tutta quella perfezione posticcia. Michele è talmente guasto dentro che le fa mettere le stesse mutande da settant’anni, e mentre me lo dice alza leggermente l’orlo della gonna a bolli bianchi e rossi per far sporgere il pizzo delle culottes. Le chiedo che cosa farà quando usciremo dal bar. Mi risponde allegra: “Montagna, mi sposto verso Udine e la Slovenia. In quel paesino mi sento sempre a casa”. “Dove, se posso chiedere?”. “A Topolò!”MM
Entrammo in un vicino bar, un posto molto ordinario (per non dire lercio) e ci sedemmo davanti a due caffè: il mio macchiato, il suo corretto rum; “correzione” per modo di dire: il suo caffè era trasparente come quello tedesco. Guardai meglio il suo viso, aveva qualcosa che non riuscivo a definire, era come se la conoscessi da sempre ma era impossibile; cercavo invano di ricordare a chi poteva assomigliare. Mi disse di chiamarsi Henriette, ma che tutti la chiamavano Minette, non le piaceva molto perché lo considerava inflazionato e infantile. Dopo il secondo caffè trasparente accennò a un uomo col quale era fidanzata da anni, senza mai essersi voluta sposare: “Se me lo chiedesse come si deve, magari”. Bella tempra di dama, pensai. Quando le chiesi come mai parlasse il dialetto locale mi disse che in realtà lei parlava tutte le lingue e nessuna perché aveva viaggiato molto, e quindi aveva assorbito un po’ di questo e un po’ di quello, ma che di origine era del sud degli Stati Uniti, vicino alla Florida… “ma si, hai presente la Calidornia, no? Tutte quelle arance…”. Il terzo caffè scomparve rapidamente, e Minette mi parlava di Michele, e di come la loro storia fosse scritta in ogni minimo dettaglio. “Scritta nelle stelle?” azzardai, preso da uno squarcio romantico. No. Scritta e basta. Lui è sempre perfetto, ordinatissimo, intransigente, puro come il ghiaccio dell’Himalaya, sempre nel posto giusto al momento giusto anche quando ci arriva per sbaglio, la legge fatta a persona. Lei sempre vestita di tutto punto, col tacchetto e il fiocco nei capelli come quando aveva vent’anni. Vanno a teatro e all’opera: lui si addormenta sempre e lei si vergogna del suo russare sommesso, ma siccome hanno un’immagine da mantenere non mancano mai a una prima. Sono sempre a tutti i ricevimenti di beneficienza, ma lui si annoia anche lì, e non si preoccupa che a lei pesi. Hanno diversi amici, ma alla fine lui è sempre a far danni solo con uno, buono affettuoso e un po' ingenuo: Michele lo tratta come un lobotomizzato, anche se non ha mai capito che è un genio poco legato alla nostra realtà, lei sospetta che se lo tenga sempre vicino per far risaltare la sua perfezione odiosa. Del resto, l’altro con cui va sempre in giro è il suo maggiore datore di lavoro e non si azzarderebbe mai a fargli fare la figura dello stolto. La vita con Michele oramai la annoia, la distrugge a volte: la sua facciata di perfezionismo nasconde un despota, un depravato. La sola salvezza è che ognuno dei due possiede la propria casa, e lei si vendica facendogli spostare i mobili di continuo; Minette ha imparato a ritagliarsi una piccola oasi di calma, con gli anni: gli dice che va a fare un soggiorno in una beauty farm e invece gira il mondo con due spiccioli, vivendo come una barbona alle volte, o facendo mestieri immaginari come la vongolara. Ha bisogno di incanaglirsi ogni tanto per attutire tutta quella perfezione posticcia. Michele è talmente guasto dentro che le fa mettere le stesse mutande da settant’anni, e mentre me lo dice alza leggermente l’orlo della gonna a bolli bianchi e rossi per far sporgere il pizzo delle culottes. Le chiedo che cosa farà quando usciremo dal bar. Mi risponde allegra: “Montagna, mi sposto verso Udine e la Slovenia. In quel paesino mi sento sempre a casa”. “Dove, se posso chiedere?”. “A Topolò!”MM
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