Sfida della qualità per i cereali italiani

Creato il 29 gennaio 2013 da Informasalus @informasalus
CATEGORIE: Salute

Il tema dell’oscillazione dei prezzi è molto sentito dal settore cerealicolo. Una filiera divisa tra oltre 600 mila aziende, spesso di dimensioni ridottissime e alle prese con la difficoltà di razionalizzare l’offerta di prodotti e innalzare il livello qualitativo
Dai 150 euro a tonnellata di dicembre 2009 ai 250 euro di dicembre 2010 (+66%). Dai 230 euro di agosto 2008 ai 125 di dicembre 2008 (-46%). Dai 180 di aprile 2007 ai 500 di aprile 2008 (+278%). Dai 140 euro di agosto 2010 ai 220 di agosto 2011 (+57%). Sono le variazioni pazze fatte segnare nell’ultimo quinquennio da frumento tenero, mais, frumento duro e orzo.
Numeri da ottovolante: perché se c’è un settore che è in prima fila di fronte alle fiammate delle ondate speculative mondiali, è quello dei cereali. Una filiera importante per l’agricoltura italiana, ma che, anche senza l’intervento della finanza, ha i suoi problemi per resistere e svilupparsi.
Luci e ombre
Polverizzazione dell’offerta, difficoltà di sviluppo degli accordi verticali tra i vari anelli della filiera, oscillazioni dei prezzi, insufficienti qualità nutrizionali delle produzioni. Per contro: numerose strutture consortili per commercializzare i prodotti, diffuso livello di conoscenza delle tecniche di coltivazione, buon posizionamento nel mercato europeo per quanto riguarda il frumento duro (l’Italia è il maggiore produttore europeo con il 40% della produzione totale).
Bisogna tenere a mente questi concetti per valutare lo stato di salute del settore cerealicolo nazionale. Un comparto che, comunque, in Italia copre una superficie di 7,2 milioni di ettari di coltivazioni (un’area grande come Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia messi insieme) con una produzione che ha raggiunto l’anno scorso i 3.900 miliardi di euro di controvalore.
A far la parte del leone il grano duro (1,2 milioni di ettari coltivati), seguito da quello tenero (530 mila ettari), orzo (270 mila) e mais (100 mila).

A preoccupare gli addetti ai lavori è soprattutto un fattore: la frammentazione del tessuto produttivo e la scarsa capacità dei produttori di offrire un prodotto che sia qualitativamente omogeneo. Le aziende che coltivano cereali in Italia sono 622 mila: 257 mila nel solo settore del frumento duro. Una miriade di realtà, spesso piccole o piccolissime: il 65% ha una superficie compresa tra uno e dieci ettari, il 20% ha dimensioni inferiori all’ettaro. La media è di 7 ettari. Per fare un confronto: la media in Spagna è di 20 ettari, in Francia di 45, negli Stati Uniti di 200-250 ettari.
«L’enorme frammentazione dell’offerta – commenta Pierluigi Pianu, direttore di Italmopa, l’associazione che riunisce l’industria molitoria – è un problema perché non permette di garantire all’industria una fornitura di prodotto aggregata, continuata nel tempo e con una qualità omogenea». E questo spinge le aziende a rivolgersi ai fornitori esteri. «Un vero peccato – prosegue – perché l’industria ha tutto l’interesse a ricevere prodotti nazionali. Risparmieremmo sulle spese di trasporto e ci metteremmo al riparo dalle incognite del prezzo del petrolio e del tasso di cambio euro/dollaro».
La frammentazione delle proprietà agricole sembra però un ostacolo non aggirabile: «Le terre coltivabili in Italia sono divise tra una miriade di proprietari e sarà sempre così. Meglio quindi prestare attenzione ai modi per concentrare l’offerta e la fornitura dei prodotti», spiega Pietro Sandali, capo dell’area economica di Coldiretti. In tal senso potrebbe essere utile sviluppare lo strumento dei contratti di fornitura pluriennali, che premino la qualità dei prodotti coltivati.
«Solo così – osserva – potremmo garantire ai produttori una certezza nella remunerazione e incentiveremmo a coltivare cereali di alta qualità».

Migliorarsi non conviene
Quello della qualità del frumento nazionale è un tema molto caro ai rappresentanti dell’industria di trasformazione: «Mediamente il grano italiano ha un contenuto proteico inferiore a quello coltivato altrove e questo incide sul prezzo pagato», denuncia Pianu.
Analisi rifiutata da Coldiretti: «Sono illazioni. L’Agenzia delle Dogane e le autorità che controllano i carichi provenienti dall’estero segnalano che i cereali importati sono spesso una porcheria, magari inizialmente destinati all’alimentazione animale, ma poi usati anche per l’alimentazione umana. Detto questo, è però vero che fare un prodotto di qualità costa di più, ma non assicura maggiori guadagni».
Inevitabile quindi che i produttori evitino eccessive lavorazioni dei terreni («costano il 60% in più», spiega Sandali) e abbandonino le varietà più pregiate, perché la loro resa è inferiore fino al 20% in meno rispetto alle sementi “standard”. «Per innalzare la qualità del prodotto servirebbero magazzini ad hoc, in cui stivare il frumento differenziandolo per qualità. Ma questa attività ha costi elevati. Se l’industria di trasformazione non la remunera adeguatamente, rimarrà un sogno».
Il fattore volatilità
Assume piuttosto i connotati di un incubo la volatilità dei prezzi dei cereali sui mercati mondiali: «È un tema che ci preoccupa – ammette Pianu – perché in due mesi il prezzo del grano può salire o scendere anche del 60%. Nel primo caso può provocare fenomeni di ritenzione, perché i produttori non vendono il raccolto per aspettare che i prezzi salgano. Nel secondo caso, spinge invece a vendere i prodotti tutti insieme, aumentando il tracollo».
Precisa però Sandali: «In Italia le oscillazioni sono molto meno marcate e i prezzi più bassi di quelli registrati sui mercati internazionali. Il rischio - fluttuazioni si argina solo con contratti di filiera, che però assicurino un’adeguata remunerazione per i produttori. Ma è un approccio contrattuale che non si è mai voluto approfondire seriamente».
NEL GRANO ITALIANO LE PROTEINE “SCARSEGGIANO”
«Alla base del minor prezzo pagato dall’industria di trasformazione ai produttori italiani – spiegano i vertici di Italmopa – c’è una caratteristica tipica del grano italiano da almeno vent’anni: lo scarso contenuto di proteine della granella nazionale».
A confermare questa caratteristica è il Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in agricoltura. Qualche dato: nel caso del frumento tenero, la percentuale di proteine ha oscillato tra il 12% dell’intera sostanza secca registrato nel 1997 e il 14% del 1999. «Alla base di tale fenomeno – spiega Pierluigi Pianu, direttore di Italmopa – ci sono motivi climatici e agronomici.
Sui primi i produttori possono far ben poco: gli eccessivi livelli di precipitazioni o, al contrario, la scarsità d’acqua influiscono sulla quantità d’azoto presente nel terreno, che si ripercuote sulla percentuale di proteine presenti nel frumento».
I motivi agronomici sono invece connessi con le scelte colturali degli agricoltori. Dito puntato contro la pratica del ringrano (la coltivazione di un cereale in un terreno già adibito a tale coltura) e sulle iniziative per ridurre i costi di produzione (lavorazione, concimazione, diserbo). Risultato?
Il frumento nazionale ha un minore contenuto proteico rispetto ai concorrenti europei e internazionali: -2% di proteine rispetto al cereale francese, -2,6% rispetto al Canada, -3% rispetto agli Usa e quasi 4% in meno del grano australiano. E risulta meno appetibile per l’industria di trasformazione.



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