di MIchele Marsonet. Avevano dunque ragione coloro – incluso chi scrive – che insistevano sull’importanza di quanto sta avvenendo a Hong Kong. Non si tratta affatto di un episodio irrilevante, che in fondo è limitato a una piccola città-isola nella parte meridionale dell’immenso territorio cinese.
Hong Kong diventa a questo punto un banco di prova importantissimo per la leadership di Pechino. Se vuole, l’esercito della Repubblica Popolare può entrare nell’ex colonia britannica in forze e schiacciare la rivolta in poche ore. Gli abitanti non possono opporre alcuna forza armata poiché la polizia è totalmente controllata dal lontano governo centrale.
Senza dubbio scorrerebbe il sangue, ma la domanda è: può la Cina comunista permettersi, nel 2014, una seconda Tienanmen? Quesito retorico. Certo che può permetterselo. Le rivolte in Tibet, nello Xinjiang (Uiguri) e altrove sono state represse con una brutalità inaudita, senza peraltro che l’opinione pubblica internazionale protestasse più di tanto.
Ma Hong Kong è un’altra cosa. E’ un pezzo d’Occidente incastonato nel territorio della RPC, britannico fino al 1997 e restituito in quell’anno al colosso asiatico. L’accordo, negoziato allora da Margaret Thatcher e Deng Xiaoping e poi firmato sai loro successori, garantiva nell’ex colonia le libertà democratiche occidentali, con la formula “un Paese, due sistemi”.
Tuttavia il virus della democrazia è contagioso, e il Partito comunista se n’è accorto ben presto. Non si possono proibire Google, motori di ricerca e altri social network nel continente e lasciare che essi vengano liberamente usati a Hong Kong. Altrimenti accade che a Pechino, Shangai e nelle altre metropoli i cittadini riescano ad aggirare gli ostacoli agganciandosi per l’appunto a Google HK.
Aggiungiamo pure i milioni di giovani che il governo ha spedito in Occidente per ragioni di studio e il gioco è fatto. Dopo almeno un anno di permanenza – e a volte di più – negli Stati Uniti, in Australia e in Europa (Italia inclusa), costoro fanno paragoni, e il successo economico non compensa a loro avviso la totale assenza di libertà. Come dar loro torto?
Certo il coraggio degli abitanti di Hong Kong sorprende tutti, non solo i cinesi. Il leader della rivolta è un liceale di 17 anni, e il nucleo è inoltre formato, oltre che dai dissidenti storici, da altri studenti universitari e delle scuole superiori. Gli atenei locali hanno addirittura rifiutato l’ordine proveniente da Pechino di inserire nei curricula i corsi di marxismo (definito “educazione patriottica”).
C’è qualcosa di romantico e, al contempo, di terribilmente pericoloso in questa rivolta. I leader della protesta – ma anche comuni cittadini intervistati – fanno capire di voler andare fino in fondo perché, intanto, nulla hanno da perdere. Preferiscono l’eventuale intervento armato con tutte le sue conseguenze a un cedimento che assimilerebbe la città al resto del Paese. E questo la dice lunga, dal momento che i segnali d’insofferenza, per quanto attentamente monitorati dalle autorità, vengono percepiti con chiarezza dagli stranieri in visita anche a Pechino e altrove.
Per tale motivo dicevo poc’anzi che Hong Kong è un vero e proprio banco di prova. Se il Partito comunista cinese non manda l’esercito a reprimere, il virus democratico si estenderà in men che non si dica. Se lo invia dovrà rinunciare a una certa maschera di bonarietà, per quanto fasulla, che si è sempre sforzato di assumere. In entrambi i casi la RPC è destinata a cambiare.
Featured image, Bruce Lee statue in Hong Kong, source Wikipedia