Io non ci sto, dalla parte di quelli che si sentono sfortunati. Devo dire la verità, a me il pensiero di esserlo assale da una vita almeno una volta al giorno. Però lo caccio indietro, lo bastono, lo nascondo, lo sbugiardo. Faccio di tutto per non assolvermi.
E’ colpa mia se non riesco a trovare soluzione a un problema. E’ colpa mia se non sono capace di colmare una lacuna. E’ colpa mia se non arrivo dove mi piacerebbe.
Perché la storia spesso ci lascia indietro perché non facciamo un passo avanti. Dunque basta. Sono più propensa a tendere la mano a chi non si lagna e ammette di essere semplicemente scarso in intelletto o volontà o coraggio. E alla fine, diciamolo, mi auguro dunque, di trovare anch’io qualche mano tesa.
Ma al lamento no. Non mi arrendo e non mi commuovo. Con l’etichetta di sfigati cronici non si possono avanzare pretese. Forse si può solo sognare di non indossarne più i panni.
E allora eccomi al costume. Che perpetua lo scontento e maledice i fortunati, senza rimboccarsi le maniche. L’italico vizio ci seppellirà, probabilmente. Senza neanche il conforto dell’ultimo desiderio da esprimere e da vivere.
I giornali e la tv non aiutano, lo so. Anzi. Ci marciano. Sulla denuncia che, ad ogni replica, annoia e basta. Non dico che debbano spuntare come funghi le ricette per la “felicità” ma almeno qualche idea o, meglio, qualche azione concreta che assomigli a una pietanza mangiabile per vivere meglio o non ammalarsi a qualcuno verrà in mente o no?
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15 novembre 2013 - Autore: Irene Spagnuolo