Anno: 2011
Distribuzione: BIM
Durata: 101′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Gran Bretagna
Regia: Steve McQueen
Sono passati appena tre anni da quando l’esordiente Steve McQueen ha ricevuto la Camera D’Or al Festival di Cannes 2008 per Hunger, il suo film d’esordio, consacrando l’allora semisconosciuto Michael Fassbender come uno dei migliori attori contemporanei. “Squadra che vince non si cambia”, e così McQueen, riconfermando Fassbender come attore protagonista, ha realizzato Shame e lo ha proposto al Festival del Cinema di Venezia 2011.
Brandon è un trentenne newyorkese bello, sicuro di sé, con una bella casa e un ottimo lavoro. Per rendere la sua vita perfetta ci vorrebbe una donna, ma l’uomo non riesce a legarsi a nessuna perché soffre di una perversa ossessione sessuale. Abituato a relazionarsi al sesso femminile solo in termini puramente erotici, Brandon fugge da qualunque donna scateni in lui il più piccolo senso di emozione. E così l’uomo passa le sue giornate diviso tra il sesso virtuale, le prostitute e i video porno. Quando la sorella Sissy, con la scusa di dover fare qualche concerto in città, si trasferisce a casa sua, Brandon sarà costretto a fare i conti con la propria coscienza e a rendersi conto di provare vergogna per se stesso.
A quanto pare McQueen è letteralmente ossessionato dalle ossessioni. In Hunger, infatti, il protagonista lottava per avere diritto alla libertà individuale, ad una vita normale, insomma, malgrado la prigionia. In Shame, invece, il personaggio è intrappolato nel suo stesso corpo, prigioniero di fissazioni che lo rendono schiavo e costantemente inappagato. È proprio attorno al suo bisogno di provare piacere che si costruisce l’intera narrazione della pellicola: il corpo statuario di Michael Fassbender, esposto più volte nei fotogrammi quasi a ricordare gli antichi tableaux vivant, serve a mascherare il senso di vuoto e desolazione che si porta dentro. Egli preferisce essere “una brutta persona” piuttosto che ammettere di provenire da “un brutto posto”. Sua sorella, invece, una strepitosa Carey Muligan, ostenta il suo dolore in modo opprimente e ridondante: telefonate, messaggi in segreteria, richieste di aiuto.
Ed è proprio quando i mondi opposti e complementari dei fratelli si incontrano che i difetti dell’uno e dell’altra vengono a galla, ed è impossibile, allora, nasconderli. Questo il motivo di una fotografia asciutta, fredda e distaccata che il bravissimo Seam Bobbit mostra fotogramma dopo fotogramma: il senso di ineluttabile disperazione, frustrazione e vergogna di un uomo consapevole della propria “malattia”, traspare in ogni momento.
McQueen usa lunghi e ricorrenti piani sequenza per raccontare gioie e dolori di un rapporto fraterno (e, probabilmente, incestuoso), in cui i litigi sono tanto distruttivi quanto gli abbracci (inesorabilmente respinti), e in cui ogni personaggio, prima o poi, finisce per fare i conti con se stesso e con il proprio passato. O forse no.
Martina Calcabrini