"[...] Voglio svegliarmi, in una città che non dorme mai / E scoprire che sono il re della collina / Al top del successo / Queste piccole depressioni cittadine, si stanno dissolvendo / Ricomincerò da lei / Nella vecchia New York / Se posso farlo qui, posso farlo ovunque [...]". Sono le note gioiose di "New York New York" ad accompagnare questi versi. Le abbiamo sentite mille volte, amando incondizionatamente le sfavillanti interpretazioni di Sinatra o della Minnelli, innamorandoci ogni volta di più di quella Grande Mela brulicante di luci e suoni che è anche il sogno cinematografico per eccellenza. Nella sequenza più bella di "Shame" ("Vergogna") la voce sottile e dolcissima di Carey Mulligan trasforma questo inno sfavillante in un'intima confessione tra fratelli, un confronto fatto di sguardi, brividi e parole non dette che i ritmi suadenti del jazz rendono ancora più intenso e straziante. Una sequenza musicale che riesce ad essere assai più eloquente di qualsiasi esplicita ammissione. È qui che il film mostra il suo vero cuore pulsante e ci rivela i protagonisti per quello che sono: figure alla deriva, perdutesi non tanto nell'anarchia sessuale o nel caos sentimentale, quanto in qualche oscura regione della propria anima dove albergano ancora emozioni represse, solitudini mai colmate e dove la disperazione non è riuscita a trovare una voce per farsi udire dal mondo. Emozioni queste di cui il lungometraggio, con estrema intelligenza e soprattutto pudore, non ci mostra le ragioni ma solo gli effetti. Perché di Brandon e Sissy (Michael Fassbender e Carey Mulligan) noi spettatori conosciamo soltanto il patologico fervore sessuale del primo e le vacue afflizioni d'amore della seconda, mentre su tutto il resto cala inesorabilmente il velo del pudore (o della vergogna?). "Shame" è stata la pellicola - scandalo di Venezia '68 (categoria evocata puntualmente dalla stampa più pruriginosa e priva di argomenti cinematografici) ma, a dispetto del sesso esibito (cautamente) o delle nudità frontali in cui ci si imbatte, ci troviamo di fronte ad un film estremamente pudico, il cui vero ed unico effetto è forse più quello di commuovere che di provocare scandalo. Brandon l'erotomane è al centro della vicenda, impiegato di successo afflitto da sindrome del sesso compulsivo, che si "obbliga" a consumare la petite mort (come dicono i francesi per indicare l'orgasmo) in modo occasionale (incontri casuali), sistematico (prostitute o sesso su internet) o perfino programmatico (le masturbazioni vissute sul lavoro come una normale pausa-pranzo).
Il folgorante incipit in metropolitana ce lo mostra seduttivo, spregiudicato e irresistibile, costretto dentro un gioco di sguardi con una sconosciuta; pochi minuti che trasudano più erotismo di qualsiasi altra sequenza più esplicita. Non si scorge barlume di sentimento nei suoi occhi tanto trasparenti e impenetrabili quanto una quieta insoddisfazione che maschera però un abisso ben più doloroso sul quale il film sceglie appena di affacciarsi senza rivelare volutamente nulla. E poi c'è Sissy, l'altra faccia della stessa medaglia di disperazione, folle inquieta e dolcissima cantante di night perennemente sull'orlo di una crisi sentimentale, aspirante suicida il cui bisogno di amore non è fatto per essere compreso dai più. Si ritrovano sullo sfondo della città " che non dorme mai" e la frizione fra i due caratteri finisce per far implodere le rispettive nevrosi in spirali ancora più esasperate e ai limiti dell'auto-lesionismo. Ma se per Sissy è la facilità con cui esterna il sentimento a determinare le sue barriere col mondo esterno, per Brandon il vero limite è rappresentato dal sesso, mera pratica compulsiva in cui si riflette la sua incapacità di relazionarsi con l'esterno o di assaporare il gusto del sentimento, al cui abbandonarsi corrisponde la tragica assenza di una corrispondenza fisica. Questa consapevolezza spinge Brandon ad accumulare pratiche sempre più estreme in cerca di uno stordimento che compensi la sua fragilità mentre il sesso intanto diventa sempre meno eccitante, più meccanico o perfino sofferente. Lo sguardo del regista Steve McQueen (qui alla sua seconda opera dopo l'inedito e celebrato - tranne che in Italia ovviamente - Hunger) è morbido e privo di orpelli, non indulge nel morboso pur attaccandosi incessantemente ai suoi protagonisti.
La sua è una regia di quelle invisibili (e forse per questo anche più mirabile) che lavora di sottrazione crescendo contemporaneamente in intensità e che si affida a tante voci (non solo quelle dei protagonisti dunque) per delineare le stesse psicologie. Più che (o meglio oltre che) i personaggi, spesso volutamente collocati ai margini della stessa inquadratura, parlano così i suoni (la musica classica che contrasta con l'atmosfera malsana) o i decòr (l'arredamento asettico degli uffici, l'essenzialità dell'appartamento di Brandon) e naturalmente parlano gli ambienti come ad esempio le vetrate dei palazzi che cessano di essere una membrana fra esterno e interno lasciando intravedere senza ritegno la vita (emblematica a tal proposito la scena della coppia che fa sesso davanti alla finestra, quasi una metafora di ciò che si mostra senza essere realmente visto dentro la città che rende ogni cosa anonima). Gli abiti definiscono poi gli stati d'animo (come la sciarpa costantemente indossata da Fassbender, metaforico cappio della sua prigionia e dipendenza) o restituiscono pietose istantanee di frustrazioni personali (come gli estrosi copricapo di Sissy o i suoi soprabiti vintage da diva in declino, che rendono, se possibile, ancora più tragica e patetica la sua sottovalutata femminilità). La stessa "New York New York" citata all'inizio non può che procurare lacrime perché il suo inno alla gioia della riconquista e al sogno della felicità suona ormai come l'ironico contraltare ad una funebre resa dei sentimenti.
Accompagnato da una tensione costante, "Shame" sarebbe già mirabile per questo suo trascendere le esigenze della narrazione ed affidarsi completamente all'emozione delle singole sequenze: il già citato incipit o l'inconfessata infatuazione di Brandon che non riesce a diventare realmente carnale sono momenti preziosi e coinvolgenti, così come il flirtare con la morte in metropolitana di Sissy o le sue tenere seduzioni nei confronti del fratello. Tuttavia il film, nello scegliere di seguire una strada più programmatica, non riesce a sfuggire dalle necessità del racconto a tesi e così si avvia, nella parte finale, verso una più tranquillizzante chiusura del cerchio che rivede Brandon alle prese con la prima, straordinaria scena di seduzione iniziale anche se, e almeno questo la pellicola ce lo concede, non ci è dato di sapere che cosa accadrà in questo suo nuovo dopo. "Shame" descrive così un percorso in cui non vi è spazio per l'identificazione dello spettatore ma al più per la commiserazione di queste due esistenze in bilico. Guardarle è un po' come sbirciare da un buco della serratura, un buco dal quale è possibile scorgere solo dettagli senza mai poter cogliere tutto l'insieme. Ma sono anche i dettagli in cui risiede la verità.