Una piccola stazione di servizio, e poi il tutto-nulla attorno: il presuntuoso marchio umano all’interno dell’immenso paesaggio delle Highlands scozzesi, come una silenziosa sfida alla potenza di una paurosa natura da esorcizzare perché imprevedibile nella sua angosciosa staticità. «L’idea per Shell mi è venuta mentre guidavo tra Glasgow e il Nord della Scozia. Lungo la strada, oltrepassando rimesse cadenti e tavole calde, ho pensato a un personaggio vincolato emotivamente e fisicamente a un posto così isolato. C’è un vuoto nella vita di Shell che va al di là della strada e permea le pareti della casa che divide con il padre». Così il regista Scott Graham spiega l’ispirazione per la pellicola in concorso al Torino Film Festival, ampliamento di un precedente cortometraggio che nel 2008 si è aggiudicato lo UK Film Council Award al London Short Film Festival. Shell è una storia di silenzi e gesti repressi, un impietoso scavo all’interno di un’umanità infelice che con ostinazione sconta la condanna per una colpa forse mai commessa. È una storia di spazi antitetici che né in un modo né nell’altro possono offrire quella boccata d’aria tanto ricercata per tutto il soffocante sviluppo di una vicenda in realtà priva di veri e propri eventi: al claustrofobico spazio interno, una casetta impregnata di ambigua torbidezza, si contrappone la monotonia dell’esterno, uno stradone che disperde tra i promontori le rare macchine di passaggio. Shell (Chloe Pirrie) vive qui, lontana dagli svaghi normalmente concessi ai ragazzi di diciassette anni, portatrice di un nome ambivalente – la benzina, sì, ma anche “quella cosa unica a preziosa che trovi nel mare” – e imprigionata in un morboso legame con il padre epilettico Pete (Joseph Mawle), in un susseguirsi di giornate tutte uguali, intervallate dalle visite di qualche sporadico cliente. Significativa l’attenzione per i dettagli: se Shell viene fin da subito connotata da particolari antiestetici quali le infantili mutande bianche, i calzettoni spessi e la pelle screpolata sulle caviglie, Pete sfoga una presunta rabbia in attività che richiedono un considerevole dispendio d’energia, quasi a volersi svuotare di un male che ha totalmente riempito le sue membra, una sofferenza che va al di là dell’effettiva malattia.
Lo spazio è costruito in modo che niente sfugga ai loro reciproci sguardi: ecco che, mentre Shell prepara in cucina la cena, il padre la osserva dall’attiguo garage dove passa il tempo a rompere, smontare, segare con mani che per tutto il film appaiono sempre sporche, impossibili da ripulire a fondo. Esasperata anche la marcatura della femminilità di Shell, al di sotto del pastrano e dei jeans larghi che tendono a disumanizzare le sue forme: suggestivo, ad esempio, il montaggio alternato tra lo scuoiamento della carcassa di un cervo ad opera di Pete, e il rubato momento d’intimità più grande che una donna possa vivere, quella gocciolina di sangue sulla carta igienica, sangue che tornerà verso la fine sulla mano della stessa Shell, attorno al segno dei denti del padre scosso da una violenta crisi. La soluzione parrebbe semplice: la fuga, non importa la direzione, basterebbe solo trovare il coraggio di trasmettere alle gambe quell’anelito vitale che a tratti sembra baluginare negli occhi spenti di Shell, quegli occhi che attendono l’arrivo di una macchina e poi la seguono finché non scompare all’orizzonte. Le occasioni le si presentano in vario modo: una coppia sposata che ha avuto un incidente, una mamma con la sua bambina, il cliente affezionato che va a trovare i figli lontani, un ragazzo dallo sguardo limpido. E tutte le lasciano qualcosa, dal libro, all’orsacchiotto, a un paio di Levi’s che si tendono sul suo sedere, fino all’abbaglio di una ritrovata fisicità impulsiva nel frettoloso rapporto con Adam (Iain De Caestecker).
«Shell sembra pensare di poter sopravvivere grazie all’amore, anche se non ne riceve da nessuno. Sebbene alla fine del film il suo futuro sia incerto, spero che la sua liberazione sia un sollievo per il pubblico come lo è per lei». L’amore è il grande assente all’interno di questo desolante quadro naturalistico: la madre ha abbandonato la famiglia molti anni prima, ora Pete non vuole che la figlia dorma nel letto con lui e le propone di comprarle un cane che possa abbracciare di notte al suo posto, mentre riecheggiano in uno struggente sussurro quelle tre parole ambigue nella lingua inglese, “I love you”, con la conseguente, disperata domanda per ottenere una conferma che altro non è che l’ennesimo rintocco della campana della condanna. La liberazione avverrà quando Shell si renderà conto che la vera vita si consuma solo fuori, non in un possibile nido d’amore con Adam che vorrebbe occupare il posto – in cucina, con la sua tazza da caffè, e nel letto, sotto le sue coperte – lasciato dal padre dopo la sua morte. Un’opera forte, ben studiata tanto nel complesso quanto nelle singole parti, che lascia molte domande in sospeso, di cui il sospetto d’incesto è una delle tante ma meno impellente rispetto al significato di due vite che lottano per la sopravvivenza – e solo una ce la fa, come la legge naturale comanda.