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Se siete a Roma, passateci. Se non ci siete, vedete di esserci per venerdì. Quel giorno infatti finirà una mostra di fotografia che davvero merita: è fotografia sociale, cioè di denuncia, è "crowd photography", come la chiamano, perchè di massa: un networkdi fotografi amatoriali ma non per questo meno bravi che scattano, con qualunque strumento a disposizione, a Km 0.
Se poi siete fortunati (temo di no) vi capiterà di vedere una delle prime Romane (la prima cittadina ha avuto ospiti del calibro dell' autore di questo blogger) di open show: fotografi (amatoriali ma bravi) che illustrano una selezione di loro lavori e si confrontano col pubblico. Che li può incoraggiare, criticare, stroncare, esaminare. Un bel terzo grado che permette di capire molto di più la fotografia.
Così troverete Paolo Quadrini a spiegarvi che in Indonesia c' è un vulcano dove lo zolfo si raccoglie a mano, si porta dalla caldera in cima, poi viene scaricato un po' più giù, al ritmo di due volte al giorno, immersi nei fumi tossici sulfurei, portando 100 chili in spalla (spalla il cui muscolo viene deformato dal peso). Poi, alla fine della giornata, si torna giù, se non si ha una casa in cima, e il giorno dopo, la amttina alle 3, si ricomincia a lavorare scalando il vulcano.
Oppure Antonio Amendola, ideatore del progetto shoot for change, vi farà vedere quanta vita ci possa essere in un cimitero del Cairo, Slum dai 300.000 agli 800.000 abitanti.
E se non troverete Open show allora vi basterà la mostra. Ma qual è il fine di shoot for change? L' idea ritiene che con una foto si possa fare una buona azione: far venire alla luce un problema, fare una denuncia sociale...
Un aneddoto: una volta Antonio e la sua "cricca" decisero di fotografare dei barboni. Allestirono un set lì per lì, li fotografarono e poi passarono una copia delle foto ai soggetti, contentissimi. All' inaugurazione della mostra arrivò anche una delle senza-tetto, tutta agghindata per l' occasione (maglione, gonna, cappellino a fiori...) e, trovata la sua foto, cominciò contenta a urlare a quelli che le stavano vicino: "Sono io, sono io quella!".
Alla fine questo sparuto team era riuscito a fare quello che fa anche un bell' abito: avevano reso belle quelle persone, le avevano fatte sentire meglio con la loro parte fisica. Avevano dato una faccio agli invisibili.
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