di Caterina Carloni
Gli americani lo chiamano compulsive buyingma il termine scientifico è oniomania(termine coniato nel 1915 dallo psichiatra tedesco Kraepelin). Malattia, sindrome, mania: gli esperti stanno ancora cercando una posizione comune. Certo è che, nel 2001, l'American Psychiatric Association ha inserito lo shopping compulsivo tra i cosiddetti "disordini ossessivi". Contano la frequenza(la sindrome deve manifestarsi almeno una volta a settimana), le proporzioni(parliamo di spese senza senso, di conti in rosso, di oggetti completamente inutili, di vestiti che non verranno mai indossati), il senso di colpa(quello che assale l'oniomane qualche ora dopo, appena mette piede in casa e prende coscienza della quantità di sacchi e sacchetti pieni di roba che quasi non ricorda di aver comprato). Secondo la spiegazione scientifica, la sensazione di piacere successiva all'acquisto compulsivo è data dalla liberazione della dopaminanel cervello; quando, però, questa sostanza scompare, ciò che rimane è solo un grande senso di vuoto. Che lo si faccia per consolarsi, per compensare un'insoddisfazione, per riempirsi la casa di cose (tante, tutte uguali, tutte inutili), l'effetto dura poco. Malgrado, tuttavia, se ne parlasse anche cent'anni fa, le proporzioni attuali del fenomeno fanno pensare che si tratti di una “malattia moderna”. E moderno appare anche il suo corrispettivo terapeutico: la shopping-therapy. Recentemente un team di ricercatori americani ha studiato il legame tra umore e shopping. I risultati sono stati pubblicati a giugno del 2008 su “Psychological Science” e sono stati presentati in anteprima il 10 febbraio dello stesso anno al meeting annuale della Society for Personality and Social Psychology tenutosi ad Albuquerque (New Mexico). Cynthia Cryder (Carnegie Mellon University), Jennifer Lerner (Harvard University), James J. Gross (Stanford University) e Ronald E. Dahl (University of Pittsburgh) hanno “fotografato” l’impatto delle emozioni sulla decisione all’acquisto. In un esperimento alcune persone sono state divise in due gruppi: uno ha visto un videoclip che induceva tristezza, l’altro un filmato neutro. Poi tutti i partecipanti potevano comprare delle bottiglie d’acqua, stabilendo loro un prezzo. Si è visto che i primi, intristiti dal video, tendevano ad offrire almeno il 300% in più per la stessa bottiglietta, rispetto agli altri. Il contenuto emozionale del filmato, secondo i soggetti del primo gruppo, non aveva influenzato la loro propensione alla spesa. Ciò induce a pensare che quando siamo giù tendiamo a spendere in misura maggiore senza neanche rendercene conto. Secondo i ricercatori, la tristezza ci porta a svalutare non solo l’opinione che abbiamo di noi stessi, ma anche dei nostri beni. Così tendiamo a spendere di più per procurarci nuovi oggetti che aumentino la nostra autostima. Nella vita reale, tuttavia, l’effetto della tristezza sul portafogli può essere molto più violento, dal momento che la depressione indotta artificialmente da un filmato non riflette la potenza emotiva di un momento di reale malumore. La ricerca rappresenta un passo importante nello studio riguardante l’influenza delle emozioni sulle decisioni di tutti i giorni. Possiamo dedurre, allo stato attuale delle ricerche sul fenomeno, che la sensazione di gratificazione personale derivante dalle spese e dai consumi tende invariabilmente a produrre un’amplificazione dei vissuti di solitudine, contemporaneamente effetto e causa di un abbassamento dell’autostima. In fondo è la legge della società attuale: ritmi stressanti, poco tempo da dedicare a se stessi e bisogni indotti che svuotano l’anima (e il portafogli).