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Shutter Island chiede la collaborazione (per non dire la complicità) del suo pubblico, perfettamente padrone di una una storia affetta e insieme impreziosità dal suo essere prevedibile, né comprensibile fino in fondo, la narrativa tradizionalissima del cane che si morde la coda. Il cane in questione è Teddy Daniels (Leonardo DiCaprio), agente federale degli U.S.A., in missione - nel 1954 - su un'isola consacrata alla psichiatria criminale. L'uomo, reduce da una vita familiare e personale disastrosa, viene affiancato da Chuck Aule (Mark Ruffalo), misterioso secondo sempre presente al suo fianco. Insieme, conosceranno il Dr. Cawley (Ben Kingsley), luminare della psichiatria, e il Dr. Nähring (Max von Sydow), il direttore della clinica; e, con loro, (in un'atmosfera non dissimile, a tratti, da quella che si vive ne Il sospetto di Dürrenmatt) uno staff dedito ad attività che non si capisce se siano punitive, detentive o soltanto - come si pretende - sanitarie. Su quest'ultima ipotesi, d'altra parte, pesa la minaccia sempre incombente di una lobotomia per i pazienti meno trattabili e lo stesso Teddy, onesto e rigoroso a oltranza, si troverà inghiottito in un vortice il cui motore è il valore predittivo di ciò che accadrà già nelle prime battute.
Shutter Island non è film che possa sorprendere: come in un dramma psicologico, tutto rientra facilmente nella trama, dal tratteggio dei personaggi agli eventi, nonché all'incastro di reale e immaginario - nel senso di "immaginato", trasformato in immagine - che ne è l'ossatura. Bisogna dire a suo merito, che, pur contribuendo a delimitare il labirinto emotivo ed esistenziale di questa storia, la fotografia rende giustizia al film. Si tratta di un'eleganza patinata, che ignora forse il tocco essenziale e sobrio di altri registi, per prediligere filtri prevalentemente monocromatici o dai forti contrasti, per accentuare la drammaticità degli eventi narrati. Lo stesso si può dire della musica, che sviluppa in forma "sinfonica" i diversi motivi del disagio psichiatrico che si respira nell'isola in un crescendo che non lascia fuori nessuno tra i luoghi comuni di questi ultimi anni (a partire dall'ineluttabile riferimento ai Lager nazisti e all'incontro eroico tra americani e tedeschi nel secondo dopoguerra).
Alle volte, ho l'impressione che gli statunitensi - e tutta l'intelligentsjia ebraica che sta dietro la macchina del cinema - siano vittime di una ferita da cui non riescono a liberarsi, con l'esito di non sapere raccontare altro. A onor del vero, ciò rientra tematicamente nel film, quando Nähring riporta l'etimologia del tedesco Traum (sogno) al greco (e italiano) trauma. Bisogna poter rinunciare a una narrativa per fare storia, altrimenti ci si avvita nell'ossessione psicanalitica (esplicita o implicita) che permea moltissimi film d'oltreoceano. Ora, io credo a Shutter Island, come a molti film realizzati a mosaico di tessere per lo più impressionistiche, manchi proprio la volontà di farsi storia (anche così, con la minuscola) e ciò me li rende tutto sommato alieni (con buona pace di alcune ambizioni cerebrali importanti).
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