Titolo: Si chiama Francesca, questo romanzo
Autore: Paolo Nori
Editore: Marcos y Marcos
Anno: 2011
“Questo romanzo, gli ho detto, la storia che si racconta, gli ho detto, non è una storia d’amore, che le storie d’amore dentro i romanzi d’amore sono sempre contrastate, vi sembra contrastata la mia storia con Francesca? gli ho chiesto alle voci.”
[…]
“Il fatto che non sia contrastata, la storia d’amore, non vuol dire che questo non è un romanzo d’amore, ha detto una di quelle voci che stanno sulla mia testa. È semplicemente un brutto,romanzo d’amore, ha detto una di quelle voci che tengo io sopra la testa…”
Learco Ferrari, 36 anni, è un traduttore annoiato dall’italiano al russo, uno scrittore alienato, partecipa a convegni e presenta libri suoi e di altri autori; è “sociopatico”, appassionato di filosofia sufi e soffre di “tipici esempi di immaginazione”.
Fra i tanti episodi che di cui si narra sin dalle prime pagine, spicca quello dell’incidente, avvenuto durante uno dei suoi numerosi viaggi, che “il trenta percento del corpo faccio fatica che sono ancora tutto convalescente, il settanta percento dal canto suo è sano perfettamente” e che ci viene raccontato lentamente, a piccole dosi, di capitolo in capitolo. L’evento condiziona decisamente il personaggio, tanto fisicamente quanto mentalmente, ma non per questo va a costituire il motivo principale del romanzo e rimane, piuttosto, intessuto sottovoce in tutta la trama.
Anche Francesca, dopotutto, che dà il titolo al libro, non è poi una presenza così costante ed invadente ma proporzionalmente intercalata tra le vicende dei familiari di Learco e le sue stesse vicissitudini o i suoi ricordi.
Già dall’epigrafe che recita “Io, da parte mia, mi sono sempre considerato un paranoico, un iperattivo, una persona che si guadagna da vivere sfruttando in modo opinabile le sue malattie mentali”, capiamo che quello che ci si sta piazzando davanti non è un personaggio comune, che quella che stiamo per leggere non è una storia “normale” per poi renderci conto, durante la lettura, che la storia è, invece, assolutamente consueta mentre è il modo di raccontarla che è insolitamente travolgente.
Se proprio volessimo mettergli un’etichetta, potremmo banalmente dire che si tratta di una storia d’amore, come sostengono le voci che stanno sulla testa di Learco oppure, come afferma lui stesso, che si tratta della “storia di un trasloco” o forse, sarebbe più semplice darne una definizione per negazioni, dicendo, piuttosto, cosa non è.
Il romanzo si scrive da sé mentre noi lo leggiamo. A mano a mano che sfogliamo le vicende del personaggio, queste prendono forma nel testo che il protagonista-scrittore sta buttando giù e che le voci contrastano.
Queste voci sono le sue antagoniste, una sorta di antipatico grillo parlante tutto postmoderno “facci vedere a noi l’atto di proprietà della tua testa, e noi ti lasciamo tranquillo…” o ancora “Oh, gli dico alle voci, ma cosa avete, lì sulla mia testa? Eh, mi dicon le voci, il centro civico. Biblioteca, cineteca, emeroteca, mi dicon le voci…” e sono una presenza così tanto ingombrante da indurrequasi il personaggio a commettere un “vocicidio”.
Attraverso la trasposizione grafica che Paolo Nori fa del linguaggio verbale così come siamo abituati ad ascoltarlo, l’uso personale della punteggiatura, il puzzle di episodi a volte ripresi da altri suoi romanzi, la costruzione di dialoghi seriosamente esilaranti, la costruzione di personaggi sopra le righe come lo stesso Learco, la nonna o lo studente Giordano Maffini, viene fuori uno stile decisamente esuberante, vorticoso, incalzante e spiazzante.
“…i critici già adesso mi dicono sempre Ti ripeti ti ripeti, Ti ripeti ti ripeti ti ripeti, Ti ripeti ti ripeti ti ripeti ti ripeti, mi dicono i critici…”
Ma, queste ripetizioni, insieme alle altre particolarità sopra elencate, costituiscono certamente la forza del romanzo, dell’autore e del suo alter ego Learco:
“Guarda, secondo me la cosa migliore è non dire proprio niente, mi sono detto, e poi mi sono chiesto Ragiono male? Ragioni bene, mi sono risposto…”