La solitudine mi abbrutisce. Quel grumo che mi sento in mezzo al petto e che tutti chiamano cuore, è stato spezzato e rimesso insieme mille volte. L’anima strappata a morsi – rigenerata nello spazio di un’estate, in cui ero fuggita via da ogni cosa e persino da me stessa – ha ripreso a deteriorarsi, inesorabilmente.
Guardo gli altri vivere: innamorarsi, fare progetti per il futuro, affannarsi per obiettivi che io non avrò mai – o mai più. Sì, il punto è tutto lì: innamorarsi. Per me era quella particolare sensazione che faceva la differenza, la ricerca della mia svolta romantica che mi faceva balzare giù dal letto la mattina e mi dava speranza e mi portava a credere che ci fossero molteplici possibilità. Sulle labbra mi restano nomi di uomini, nomi a metà, particolari insignificanti. Li collego a qualche lacrima, a un battito di cuore accelerato, una risata o una versione che mi ha dato conforto raccontarmi. A volte ho vinto io. Ma è superfluo sottolineare che il conteggio finale mi ha decretato perdente.
E non so se sono più così forte per giocare ancora, per rischiare di farmi di nuovo male. Né ho più il fegato di fare del male io a qualcuno. Che poi chissà se agli uomini si può fare del male. Probabilmente, no.
La solitudine mi rende una persona peggiore – più di prima, se possibile – ma è come galleggiare in un confortante liquido amniotico, guardare la vita dal di fuori, guadagnare quella agognata panacea che si chiama anche distacco. E ci sono delle cose che mi mancano. Ma mi hanno fatto troppo male quando le ho avute, quando ho sfidato la mia sorte nelle notti disperate di una città che mi ha masticata e poi rigurgitata fuori.
Riparto dalla solitudine e resto a sguazzarci. E pazienza se, ogni mattina, la prima cosa che dico al mio analista quando entro in ufficio è: Buongiorno Luca, ricordati che la vita è una merda. E pazienza che io passi tutte le domeniche a dormire o a sublimare la mia rabbia davanti a uno schermo o a delle pagine. E pazienza che abbia smesso di scrivere. E che ormai l’unica sensazione a scuotermi sia un orgasmo silenzioso prima di addormentarmi. E che continui a mentire spudoratamente a chiunque mi circondi – che continui a elargire sorrisi a chi mi voglia bene, mentre dentro sono morta.
Ha ragione Teresa quando dice che me ne dovrei tirare fuori. La colpa è tutta della solitudine. Ma dovrei davvero tapparmi il naso e lanciarmi per l’ennesima volta nel vuoto? Se qualcuno si aspetta un sì, così su due piedi, è un coglione.