Si parla spesso di depressione e quando si utilizza questo termine si allude ad una costellazione di emozioni che vanno dall’impotenza alla disperazione, passando per la rinuncia. Ma la persona che si sente impotente può rinunciare e atteggiarsi a vittima utilizzando diverse modalità, ecco perché è possibile individuare numerose varianti della depressione.
Oggi parleremo dell’individuo che rinuncia delegando, nella convinzione di non essere mai stato capace di nulla, nemmeno di controllare la propria vita. Parleremo dunque di colui che le dottoresse Muriana, Pettenò e Verbitz, psicoterapeute della scuola di specializzazione di Terapia Breve Strategica di Arezzo, definiscono il depresso radicale.
Questa definizione, particolarmente forte e d’impatto, viene utilizzata proprio per identificare l’invadenza e la persistenza della sofferenza nell’individuo che la manifesta. E’ forse la forma di depressione più semplice da riconoscere perché si caratterizza per la generalizzazione del pensiero negativo e per il fatto che la persona che ne soffre è convinta di essere venuta al mondo così. Non esiste un prima e un dopo ma un sempre. E’ probabile che il depresso radicale nella sua vita sia stato esposto a percezioni con lo stesso comune denominatore: “Tanto non ce la fai, non sei capace, sei sfortunato…” oppure “Tanto non ce la faccio, non sono capace, sono sfortunato…” e nel tempo abbia così costruito la credenza di essere sbagliato e inadeguato. Le inevitabili sconfitte, cui tutti siamo esposti, non fanno che dimostrare al depresso radicale la sua inettitudine ed anziché essere stimolo per migliorare, diventano l’evidenza che allora davvero il mondo è ingiusto e non vale la pena progettare o fantasticare. L’unica risposta possibile è la rinuncia.
“Tutti sono felici, tutti hanno una vita soddisfacente, io sono sfortunato, Madre Natura si è accanita contro di me ed io non potrò mai fare quello che fanno gli altri perché non ne ho la capacità“. Questo è più o meno quello che pensa il depresso radicale. E questo atteggiamento di rassegnazione non può che diventare una profezia che si autoavvera: credere di non potercela fare significa già non farcela. La credenza viene costantemente confermata dai fatti perché una persona che costantemente rinuncia vive una quotidianità costellata di impotenza. E così, come un cane che si morde la coda, il pensiero depressogeno non fa che alimentarsi e l’individuo vive in un costante stato di prostrazione, in cui la commiserazione di se stesso e la lamentela la fanno da padroni. A ciò non può che aggiungersi la delega agli altri, considerati capaci e vincenti.
Questa forma di depressione è la più facile da riconoscere ma, come dicevo inizialmente, non è l’unica. Seguitemi perché prossimamente scopriremo insieme altre varianti di questo tipo di sofferenza.
Nel frattempo sono sempre ben accetti i vostri commenti: conoscete persone depresse, avete sofferto voi per primi di depressione? Cosa avete da dire su questo tema?
Fonte: Muriana E., Pettenò L., Verbitz T., 2006 - I volti della depressione: curarsi in tempi brevi - Ponte alle Grazie, Milano.