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Si fa presto a dire Vampiro... ospita Novelli & Zarini + Racconto

Creato il 13 aprile 2012 da Tuttosuilibri @irenepecikar

Si fa presto a dire Vampiro... ospita Novelli & Zarini + Racconto

Seriale edito da Chichili Agency


Lo stile di scrittura di Novelli&Zarini è lineare e visivo, le loro trame mediano al ritmo della suspense il senso dell’indagine scientifica con personaggi che si muovono tra le pagine come attori su un set cinematografico. Hanno pubblicato tre gialli.
L’ultimo di  Novelli & Zarini
Si fa presto a dire Vampiro... ospita Novelli & Zarini + Racconto

Notte senza luna. Il cielo, una lastra nera impenetrabile. La pioggia gli scivolava sopra e colava giù, torrenziale. I fulmini lo scheggiavano appena, sfregi prestissimo rimarginati. Il tuono gli implodeva dentro in un boato sottovuoto. Tutto quanto appariva senza profondità, un enorme fondale di scenografia, piatto, da guardare, ma senza poterne provare la consistenza. Anche il tendone del piccolo circo. Una decalcomania sottile e giallastra, incollata sul buio. Alla sua sinistra, sparute auto dentro il cimitero di un parcheggio. Carcasse silenti, pronte a resuscitare con un giro di chiave. La foresta confinante, vaga, risucchiata, gli alberi inspessiti dalle tenebre fino a diventare pilastri immarcescibili.
Una pista soltanto. L’angusto, soffocante spazio di quel piccolo tendone non se ne poteva permettere un’altra. La sabbia puzzava di sudore e di secrezioni feline. Le impronte leggere e lisce degli acrobati demolite da orme di animali pesanti, troppo ingombranti per quel cerchio bardato da tante piccole luci sferiche. La goccia d’acqua di Chopin attaccò su un disco rovinato, maltrattato da una puntina antica. Martellante, title track di una storia sempre identica. L’immobilità del tempo. Gli spettatori erano maschere in perenne penombra, teste senza corpo su panche di legno. Lo spartiacque di un tendone ruvido di velluto porpora preavvisò l’ingresso. L’attrazione più attesa. Bruma. Prese ad allargarsi sulla pista, nascondendo il visibile. Nebbia. Prese a sollevarsi, guidata compatta in una sola direzione, il centro della pista. Bocche tagliate sulle maschere. Labbra sottili rotonde, a rappresentare un suono di meraviglia. Dalla nebbia emerse una figura. Nera. Un inchino, togliendosi il cilindro con una mano, muovendo il mantello dall’interno scarlatto con l’altra. L’illusionista. Il suo numero non aveva eguali. Ma lui non aveva celebrità, né onori, copertine di giornali o interviste. No. nulla di tutto questo. Restava confinato nella mediocrità di quel circo itinerante. Di paese in paese. Le città, nemmeno sfiorate. Nemmeno pensate. Due inservienti. Flaccidi, di impaccio anche loro per quel cerchio di sabbia che dava l’impressione di restringersi ad ogni minuto che passava. Trascinarono un vetro su ruote. Largo e massiccio. L’illusionista lo indicò con un gesto della mano, quindi si levò mantello e cilindro, consegnandoli a uno dei due servitori. Era magro, alto, ossa e carne dentro un vestito d’ebano. Qualcuno del pubblico provò a distinguerne il volto. Impossibile. Giochi di ombre lo nascondevano. Lo difendevano dalla curiosità. C’era un’atmosfera lugubre sulla pista. I pochi colori esistenti, svaniti. Era come se la notte solida fuori, fosse penetrata dentro. La pista stava per essere stritolata tra le spire di quelle tenebre. L’unica cosa che emetteva un luccichio di tanto in tanto era il drago incastonato sul medaglione al collo dell’illusionista. Barlumi fugaci, più che altro scherzi della mente. L’illusionista picchiò sulla placca trasparente, due volte. La consistenza. Inaccessibile. Il palmo della mano poggiata sul vetro. Poi, pressata, a desiderare l’inarrivabile. Attraversarlo. Andare oltre il comprensibile e il possibile. La mano diventò prima braccio, poi, tronco, gamba. Infine, corpo intero. Dall’altra parte. Smaterializzazione. Silenzio. Nessun applauso. Le maschere sedute erano prive di parola. Dov’era il trucco? Perché un illusionista è, inganno. I due inservienti vennero a riprendersi la barriera su ruote. Fecero fatica a spingerla indietro. Ad uno di loro saltò persino il bottone di una giacca troppo stretta e logora. L’illusionista rindossò il cilindro, quindi il mantello. Non si spostò dal centro della pista. Allargò le braccia con un movimento pigro, trascinando con sé i lembi del mantello. Croce blasfema di se stesso. Un Cristo vestito a festa. Le braccia portate più su, oltre l’altezza delle spalle. Il patibulum di una croce spezzato, vinto da una forza superiore. Di colpo, quasi prendendo velocità, le braccia calarono. Il pubblico riacquistò la voce. Il solito O, disegnato sulle teste senza corpi. Il mantello, senza consistenza, cambiò forma, traiettoria nel ricadere, con l’aria che lo invase, gonfiandolo come il cappuccio di un cobra. Si acquietò a terra, come una fiera sazia. Ratti. Vennero fuori dal raso, a frotte, sparpagliandosi. I loro squittii si mescolarono a grida di orrore, di repulsione. Le teste si ricordarono di avere anche un corpo. Si alzarono, qualcuno montò sulle panche, accartocciandosi su stesso, proteggendosi col nulla. Ma i topi non superarono il confine della pista. Centinaia di occhi rossi in movimento, peli irsuti a scavare il vuoto. Le code rastrellavano la sabbia, tracciando segni ancestrali. Richiamata. L’orda immonda si raggruppò. Una cuspide che puntò dritta al mantello. Cappa che si sollevò appena, a riprendersi ciò che aveva generato. Movimento sotto il tessuto. Altro a prendere forma, a innalzarsi. Gli spettatori non ebbero nemmeno più la forza di sorprendersi. L’illusionista. Il cilindro sulla sua testa, il suo corpo esile ammantato di nero. Questa volta furono applausi. Ma mancava ancora un numero. Altre rotelle tracciarono una direzione in divenire sulla sabbia. Una gabbia. L’illusionista la indicò. Via il cilindro e il mantello. La libertà quasi subito segregata dietro le sbarre, mani e piedi oppressi da catene. Uno degli inservienti sigillò l’entrata. L’illusionista era in trappola. Un cenno col capo. I due inservienti si allontanarono. Nessun telo a coprire la gabbia, ma quasi subito il pubblico si trovò costretto a strizzare gli occhi. Nebbia, oltre le sbarre. Un velo che divenne trama fitta. Silenzio. Un ululato spaccò la quiete. Si levò alto, terribile, profanatore. Un lupo. Si muoveva nervoso dietro le sbarre. Occhi gialli magnetici, fosforescenti puntati oltre il cerchio. Verso la normalità. La coda sbatteva contro il ferro, le zampe battevano sul fondo della prigione, quasi ad avvertirlo della presenza. Con un po’ di timore i due inservienti aprirono la gabbia. Il lupo balzò fuori. Il terrore dei presenti si fece tangibile, la stessa aria lo inspirò mettendosi a vibrare in refoli bollenti. Le maschere parvero incrociarsi, sovrapporsi, dentro attimi dominati dal caos. Un altro ululato paralizzò il circo. Prima però che gli spettatori potessero puntare le loro attenzioni sull’animale, questi sparì dentro la solita bruma. Quando si dissipò, l’illusionista era lì. Al centro della pista. Applausi. Tanti, numerosi di sollievo. Il preludio di Chopin continuò a scavare nelle menti dei presenti anche quando lo spartiacque di velluto porpora ghermì l’illusionista.
Un camerino. Un semplice angolo buio, a dire il vero. Un tavolo a muro, stretto. Una lingua di legno tormentata dalle tarme, come la seggiola dallo schienale a conchiglia. L’illusionista si sedette. Il cilindro posato da un lato. Le dita scarne tracciarono i contorni del viso. Tastarono l’incarnato pallido. Blue moon, pallida luna perché… Una vecchia canzone, come tante. Troppe. Una confusione di note e di parole nella testa. Di facce e anime stuprate. Il disagio mentale di chi aveva quasi seicento anni. Lui era l’ultimo della sua stirpe. Le dita si infilarono tra i capelli corvini. Bui, privi di ogni riverbero. Ma anche il primo. Il drago al collo parve destarsi, scuotersi, animarsi di vita propria. L’alfa e l’omega di un mondo che non esisteva più. Il mostro di un tempo, l’essere temuto e rispettato. Un fenomeno da baraccone, oggi. Le straordinarietà spacciate come magie. Una progenie intera ridicolizzata da libri e film di ultima generazione, ridotta a moda per ragazzini annoiati, dopo che per secoli le pagine dei libri avevano narrato mito e superstizione quasi con devozione. Una progenie che nel dì del tempo era, il Male. Un male adesso surclassato da crudeltà peggiori. Un mostro antico ai margini di un mondo nero, più buio delle tenebre di una volta, peggiore di un cuore che non batteva più da secoli. La bocca si dischiuse leggermente. L’indice prese a scorrere sulle gengive superiori. I canini, retrattili. Stigmate di eternità. Vlad, il capostipite e l’ultimo dei vampiri. Un tempo a difesa della Chiesa, ora, un emarginato di periferia. Gli occhi neri si persero nella convinzione sempre più forte di una volontà. Rinnegare l’immortalità. Un giorno l’avrebbe fatto. Avrebbe guardato sorgere il sole. Le mani trascinarono il cilindro lungo il tavolo, fin sotto gli occhi. “Abra-cadabra.” Tutte le dita a rovistare dentro, ad afferrare qualcosa. A tirarlo fuori. Un fenomeno da baraccone… Tenuto per le orecchie, un coniglio bianco. Vlad lo strinse al petto. Chiuse gli occhi. La testa leggermente inclinata, la guancia fredda a contatto con l’animale, per lasciarsi invadere dalla sua paura. La bocca si spalancò, i canini scesero e affondarono nella carne. L’ultimo della sua stirpe… Il sangue schizzò con violenza su uno specchio ovale e prese a scendere. Sopra un’immagine riflessa che non c’era.
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